Beatrice Zerbini, D’amore, Internopoesia Editore 2022
Una recensione di Martina Lelli
“D’Amore” di Beatrice Zerbini è poesia all’improvviso, asindeto stretto tra la vita che accade ed il chaos dei sensi: in fieri scandisce tempi e battiti in articolazioni d’anima, realizzando un microcosmo che urge d’esplorazione e d’implosione. I versi diretti e dirompenti dell’autrice sanno sostare nell’incompiutezza continua, nell’oscillazione interiore dell’ascolto e del percepire, tracimando nelle vie del non finito, dove mancanze e cimeli del quotidiano osmoticamente scandiscono la fenomenologia dell’amore e della morte.
L’accoglienza del mondo nel proprio intimo andare è la naturale inclinazione della poesia della Zerbini che, nella rielaborazione esistenziale dal particolare all’universale, scopre i significati della propria vita, attraverso una cognizione d’oralità capace di vibrare le tangenze tra “il chiasso di esistere insieme” e “l’estraneità/ della nostra – eppure – identica/ vita” (40. “Cartolina da una pandemia III”). Le relazioni umane, infatti, focalizzano una piccola casa in cui annidarsi e, nelle stanze, le tracce “dello spazio-tempo che ci tiene” [67. “Per quanto io mi sforzi”]: è proprio qui che l’essenzialità della poesia d’amore è portatrice d’introspezione nell’altro, identificato dal tu che ascolta, in silenzio, le dichiarazioni d’anima della poetessa, naufraga nelle confessioni dei giorni che si trasformano in indefinito, “in attesa di un cortese, nonché urgente cenno” di “Amore./ Pazienza,/ temperanza,/ verità, amore.” (54. “Spettabile Cieli SpA”).
Il linguaggio di uso comune, non letterario, ma significativamente sublimato dall’empatia musicale e dalla scorrevolezza dei versi, è elegante espressione dei dettami del cuore che scava, in profondità, “per sentire se si/ sopravvive/ là fuori” (36. “La mia bambina”), e, tra i distacchi e le assenze della vita, si appoggia come un velo alle mancanze, lasciando spontaneità al ritmico espirare di fotogrammi fluidi che indagano inconsciamente un senso nell’Io-forma e suono.
L’utilizzo della prima persona diviene, quindi, naturalità, trasparenza fisica ed emotiva che sfocia in perlustrazioni circostanziali (“Sento chiamare il mio nome/ e lo so che non sono io” da “37. Sento chiamare il mio nome”), in espansioni di sé (“Non posso vivere pensando/ tu mi possa morire/ ma vivo/ di sola forza che tu sia,/ che tu esista al mondo” da “65. Non posso vivere pensando”) e, infine, nella confessione dei giorni che, inesorabile, scende alla quotidianità e a cui la Zerbini risponde con la cura della poesia (“Provo il verso se tiene,/ sulle dita mi accerto se posso/ appoggiare la parola piede/ ad un salto nel vuoto” da “49. Provo il verso se tiene”. Così, “Come ubriachi che a tentoni/ arpionano visioni, intenti/ a non scapicollare/ al suolo”, l’autrice si sente appartenere ai Poeti: l’Io, a tutto tondo, diventa un “noi”, ed il plurale accarezza dolcemente le fragilità e l’ammissione di mal celare “la miseria di saperci/ incapaci/ di vivere di lungo, senza/ tentennamenti, senza/ voltarci indietro, senza/ continuamente/ andare a capo.” (48. “Poeti”).
La partecipazione attiva del lettore è l’ennesima potenza dell’Amore dell’autrice che, nel cammino comune delle emozioni, delle impressioni e dei sentimenti nascosti in questa silloge, si confida e si trasforma, a nudo, nella terapia del vivere di ciascuno di noi: soglie, anticamere, finestre e cassetti di un tempo soltanto nostro. Che sia esistenza, sopravvivenza, vita o non-vita è pur sempre “materiale eterno” (70. “Nel cassetto della mia cucina”).
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