A qualcosa serve, ve lo giuro, la poesia.

L’AMACA di Michele Serra – la Repubblica 23 giugno 2017

VA RISPETTATO il dibattito divertito che ha accolto Giorgio Caproni nei temi di maturità. La letteratura non è pop, la poesia men che meno, non possiamo pretendere che la smisurata utenza social, maturandi inclusi, conosca uno dei nostri poeti più grandi e appartati, e ragioni sul fatto che un tweet (140 battute) potrebbe essere paragonato a un lungo verso, con un capo e una coda. Si sono dunque sprecate le ironie sul cognome, e le perplessità sul fatto che “non era nel programma”, il Caproni, a differenza del Foscolo o del Leopardi. Però qualcuno, magari, ha poi letto quei versi, semplici e amari come l’erba secca.

Ho avuto la fortuna, grazie a una moglie letterata e amici musicisti, di leggere Caproni in pubblico nelle piazze dei paesi dove lui trascorse i suoi ultimi anni (montagna piacentina). Non essendo un attore la dizione era quella che era, e Caproni non è un poeta facile. Ma con l’aiuto del violino e della fisarmonica, delle assonanze tra i luoghi e le parole, delle ventate e delle stelle, tutto è stato capito. Anche il meno istruito, il meno propenso poteva dire, come il suonatore Jones di De André, “sentivo la mia terra vibrare di suoni”. A qualcosa serve, ve lo giuro, la poesia.

 

 

Il testo di Giorgio Caproni è questo.

“Versicoli quasi ecologici”
Non uccidete il mare,
la libellula, il vento.
Non soffocate il lamento
(il canto!) del lamantino.
Il galagone, il pino:
anche di questo è fatto
l’uomo. E chi per profitto vile
fulmina un pesce, un fiume,
non fatelo cavaliere
del lavoro. L’amore
finisce dove finisce l’erba
e l’acqua muore. Dove
sparendo la foresta
e l’aria verde, chi resta
sospira nel sempre più vasto
paese guasto: Come
potrebbe tornare a essere bella,
scomparso l’uomo, la terra.

(tratto dalla raccolta Res Amissa)