Giulio Perelli, I cavallini della steppa. Memorie in versi della ritirata di Russia, Balda Editore, Prato 2021

 

 

 

Un poemetto di 900 versi in cui Giulio Perelli ricordava nel 1962 gli avvenimenti di cui era stato testimone come capitano dell’esercito durante la campagna e la tragica ritirata di Russia del 1942-1943. Queste memorie vengono  pubblicate ora a cura di Annalisa Macchia, che ne fa un’appassionata e precisa introduzione.

Teresa Paladin nella postfazione delinea le vicende storiche e inserisce l’opera poetica di Perelli nella letteratura memorialistica di quella guerra:

” Se un martirio cui si sopravvive è un fardello che chiede, prima o poi nel tempo, di essere comunicato, Giulio Perelli ha scelto di raccontare in poesia sofferenze e luci di un’esperienza forse inenarrabile con la stessa efficacia evocativa in un dialogo conviviale. Lo ha fatto senza perdersi in meandri retorici, ma con la schiettezza e trasparenza dei suoi versi che fotografano momenti concreti di vita apparentemente irrilevanti sul piano della grande Storia, ma che cambiamo la vita degli individui che quella Storia l’hanno vissuta e subita.

Con punte di intensità che squarciano le tenebre che ogni guerra conduce con sé, sono palpitanti i versi che “vedono” la pallida ebrea senza speranza, l’attimo del giovane imbambolato e avvolto dal panico, il soldato che vorrebbe vendicarsi. Dal procedere poetico   emergono, quasi a sentirli, i rumori delle pesanti macchine da guerra, dei mortai e degli aerei e i passi dei soldati affondati nella neve e col nemico alle calcagna.  Non arriva un senso di disperazione al lettore da questo racconto poetico di luminosa e costante efficacia. Emerge piuttosto uno scenario, un quadro composito di perdite, fatiche, vite infrante o sospese. Il vuoto e la solitudine, la rabbia di percepirsi ostaggi di una situazione imprevedibile e terrificante, la rassegnazione ma anche il tentativo indiscusso di raggiungere la salvezza sono tutti stati d’animo che l’autore vive e condivide con gli altri soldati: tutto ciò è poeticamente espresso all’interno di un contesto corale.

I versi di Perelli presentano fatti e stati d’animo, domande sul senso degli eventi e speranze di vita: il sentirsi inermi di fronte alle potenti armi dei russi, la poesia della fede in Dio nell’isba, i momenti di ansia e l’incertezza di uscire vivi dalla crudeltà della guerra. La stessa sopravvivenza dell’autore diventa un invito a riflettere sul gioco complesso del destino…l’ultimo treno che parte, la mitraglia che sceglie la linea di separazione tra la morte e la vita.

Come le pagine dei romanzi di Bedeschi e Rigoni Stern ci presentano soldati attaccati alla vita, pur nella loro fragile umanità, e in grado di riconoscere la stessa dignità umana negli altri, anche se schierati sul fronte avverso, anche Momenti di venti anni prima (1942-1962) di Perelli testimonia che si può restare umani anche se attorniati da circostanze disumane. La sua poesia, piana e lucida ma di grande efficacia comunicativa, nasce per esprimere la dignità e la sensibilità dell’uomo come baluardo alla barbarie della guerra.”

 

Un commento di GIuseppe Lorenzo:

Il breve testo poetico di G. Perrelli “I cavallini della steppa” è la rievocazione, dopo vent’anni dai fatti, della tragica ritirata dal fronte russo, avvenuta nel dicembre del 1942. Sin dai primi versi, scritti con un linguaggio  incisivo e molto efficace e uno stile leggero e veloce, si percepisce un clima plumbeo che è indice di inquietudine e di paura che la guerra genera in chiunque, anche in chi di mestiere ha scelto di fare il soldato come il capitano Perelli.

C’è una diversa umanità in tutte le figure che si incontrano nella narrazione: dalla “piccola ebrea dal viso triste “ il cui destino sembra segnato per l’odio degli uomini  al giovane bersagliere “Piumetto”anche lui subito rapito dalla morte come “ il giovane artigliere”. C’è poi il sacrificio eroico del cappellano militare e poi ancora di un altro prete e un medico. Tante altre figure emergono  nitide nel susseguirsi di immagini che scorrono rapide in questo poemetto; prevale ovunque uno slancio solidale e un’altra miriade di sentimenti e di emozioni. Gli eventi della storia raggiungono l’apice del dramma per questa umanità di soldati in guerra con la battaglia nella conca di Arbusowka (  la valle della morte): l’esito è una disfatta per l’esercito italiano e una fuga precipitosa nella steppa gelata dell’inverno russo per sfuggire alla morsa a tenaglia dei russi. Il paesaggio assume quindi aspetti apocalittici: il sangue rosseggia ovunque sulla neve, la morte incalza giorno e notte con le pallottole, con le granate e con il freddo a 30 gradi sotto zero: dolore, sofferenza e disperazione regnano ovunque. In tale contesto si cerca estremo soccorso nel sentimento religioso a cui l’uomo si aggrappa con tutte le forze per resistere alla follia di uno sforzo fisico e mentale che non ha limiti e mai fine. Ma la pietà non è solo per gli uomini : bella la figura del veterinario del reggimento che finisce i cavalli feriti con un colpo di pistola nell’orecchio per sottrarli alla sofferenza e all’agonia.

 

Una recensione di Franca Bellucci

Il poema narrativo in cui Giulio Perelli (1905 – 1971: in appendice al libro, la notizia biografica) ha rielaborato, nel 1962, i ricordi della Campagna di Russia, cui aveva partecipato dall’estate 1941 all’inverno 1943, riporta alla memoria il narrare ritmato degli antichi raduni serali, socializzanti, già in uso nei borghi, nei paesi. Ci sorprende, forse, che si riattivi una tradizione: ma è stata consueta, quindi merita attenzione e può avere futuro. In questa prospettiva, dunque, scelgo di definire “lasse” i ventiquattro momenti in cui l’A. ha frazionato il racconto, lungo una linea franta ma consecutiva, e a cui l’editore ha fornito titoli, così da facilitare la sintesi. Opportunamente i familiari affidatari delle carte ne hanno tratto anche una narrazione in prosa, come testimonianza da condividere con i giovani in via di formazione: ma non escluderei che, se si riattivassero “veglie” e “trebbi” in spazi comunitari, proprio la forma ritmata aiuterebbe la memorizzazione. Le specifiche notizie sono anche chiosate in note d’appendice a cura dello stesso Perelli, e illustrate con competenza storica da Teresa Paladin.

La rielaborazione memoriale, dunque, è stata fissata a distanza dall’esperienza, che Perelli aveva fatto come militare graduato. Venti anni trascorsi dall’accaduto cambiavano certo la prospettiva. A tale altezza i disegni tentati nella prova in guerra erano già componenti verificate e superate nel riordino diplomatico del mondo, continente per continente: anzi, il riordino mostrava già crepe interne.

L’A., certamente consapevole di come sta evolvendo la memoria pubblica, nel testo dà il proprio contributo di testimonianza restando sul fronte perdente: è quello cui lo ha assegnato la sua cittadinanza e il curricolo di ufficiale, già soldato nella Grande Guerra. Egli risulta stimato e degno di stima, risaltando in particolare le doti umane, oltre a specifiche competenze del grado che diventano di utilità costruttiva nella difficile situazione: non prevista e a rischio degrado.

Nel poemetto la cornice fissata dagli strateghi della guerra presto salta. L’A. in qualche modo resta interprete del ruolo di ufficiale mentre il piano di guerra viene riformulato fino al ripiegamento. Per lui risulta primaria la relazione umana, orientata su una estesa, profonda pietas, verso i compagni, verso umani testimoni di incontri, verso animali. Le menzioni raramente passano dai nomi propri (è citato per nome il colonnello Carretto, vittima prima di un incauto connazionale e poi dei nemici, come per nome cita Vanino Vanini, sacerdote che nel Natale ’42 aveva portato il Viatico) ma in ogni incontro le identità sono ben individuate, come soggetti di quadri che fissano istantanee nella memoria. L’A. non menziona i più alti responsabili, né quello del proprio comandante ferito, per il quale però opera concretamente, riuscendo a metterlo in salvo. Pure nel racconto complessivo la perizia bellica lascia impronte: così da risultare buon contributo a impegnative azioni per rompere l’accerchiamento, e da trarne operatività utile al ripiegamento, per la salvezza di ciascuno e di tutti. Si constata, dunque, una imprevista abilità tattica nel procedere alla ritirata, graduando le priorità nella situazione di fatto, divenuta un piano inclinato verso difficoltà incalcolate.

Da testimone, come il poeta si pone, il disegno spazio – temporale è precisamente delineato. Il territorio è lo sfondo che l’A. ben identifica, nell’avanzata prima e poi nel ripiegamento, fino alla fortunosa copertura dello spazio che separa dall’ultimo mezzo di salvezza, quel treno che, presentato ultimo e definitivo, comporterà lo scioglimento dell’episodio (lassa 23: «Occorre far presto/ perché dopo quello/ nessun altro treno/ potrà passare il Dniepr!»). Nel tempo storico della missione possiamo segnare gli episodi successivi rilevati: l’andata, fino al posizionamento sul Don, copre le lasse 1 – 7, limite contro cui però lo slancio cessa, imponendosi il blocco con le lasse 8 – 9; poi l’inversione: la ritirata ardua, che complessivamente si estende nelle lasse 10 – 24, procedendo verso il Dnepr. Vi si distinguono due modalità della ritirata, segnate da due episodi rilevanti. Vi è prima il blocco ma resistente, che culmina nell’episodio di Arbusowka, “valle di morte”, ma già salutata come «reggia / perché aveva (avevi) capanni, / pagliai e acqua: /acqua sorgiva!». Poi il guidato annientamento – del resto ormai ritorna più volte il termine “gregge” per indicare l’esercito ridotto a massa confusa –: tale si interpreta l’episodio di Cerkovo, circoscritto nelle lasse 17 – 20 («Perché tanto cognac / nei magazzini di Cerkovo? … Ma si uscirà da Cerkovo?»). Infine nello spazio delle lasse finali, l’attenzione si affissa sui “cavallini della steppa”. È a questi che il poema è intitolato, compagni generosi e autori della salvezza, eppure alla fine sacrificati, perché non staccati dalle briglie, da uomini accecati dalla fretta, degradati da uno “sgomento” che risolve l’istinto in egoismo. Questi cavalli, provvidenziali e amichevoli, sono protagonisti nelle lasse finali, dal 21 al 24. Il poeta esce dalla prova durissima con dignità, tuttavia smorzando ogni senso di orgoglio. Egli acquisisce che è cambiata la proporzione dei suoi valori. Il disegno di quella che considerava la scala dei viventi, un triangolo al cui vertice poneva l’uomo, si è modificato: nell’esperienza estrema, l’A. ha provato che gli animali sono più generosi degli uomini. La conversione dà il tono mortificato ai versi finali: «Che ingrati / sono gli uomini, / o cavallini, / che egoisti, che vili /… la guerra infame, / li può rendere infami! / Abbiate pietà degli uomini, / cavallini della steppa!» (p. 55)

Vale la pena di interrogarsi sulla scelta dell’A., di dare forma ritmica a questa testimonianza. Con evidenza, non è una informazione standard quella viene offerta: il confronto con la narrazione della storica Teresa Paladin ne è prova, scaturendo da una disciplina positiva, che prevede accertamenti in archivio, confronti puntuali sui documenti. Altro è il testo di Giulio Perelli. Egli ha come guida dell’intima rielaborazione il ritmo, e associa nel ritmo l’auditorio virtuale: per questo sceglie la poesia, la forma discreta che volge le memorie in intimi accenti, e che chiede all’ascoltatore, o lettore, trascinamento e pausa. Il disegno complessivo è quello del viaggio: scandito in molti momenti dal treno, e talora dalla corsa dei cavalli. Ritmi, dunque, che si materializzano in immagini, in episodi specifici e rilevanti, ma ancor più in atmosfere: che, nel tempo della memoria, sono divenute interrogative e tese. Ecco il treno: «Che porta la notte? / Ci si ferma: un boato, / ferri contorti… E lunghe sfilate / di gente che guarda / del treno alla guardia: / ma “guardia” di che?» (p. 24) E i cavallini: «Cavallini, che avete? / … Anche voi date / il vostro tributo di sangue, / ma non vi fermate, / non scalpitate, / non nitrite, / non vi lamentate…/ (p. 49). Il ritmo, dunque, come catena lunga e avvolgente. Ma anche intima, nella dimensione più consapevole della condizione umana: per questo anche ritmo di preghiera: «Dentro si diceva il rosario! /… Bisogna sentirlo, / il rosario, / pregato da giovani uomini / sperduti nella steppa, / in un’isba deserta, / mentre fuori infuriano / neve e Katiuscia…» (p. 36) In tale ritmo, spesso cantilenante, di versi liberi, con evidenza prevale la misura breve. La parola finale del verso, più spesso in assonanza e consonanza che in rima perfetta, è custode fedele e discreta di immagini. Per esemplificare: terra – guerra – steppa (p. 25); occhi – oppressori – boschi – cuori – forti – motori – ponti (pp. 24-25).

È dunque possibile proporre una risposta all’interrogativo sopra formulato. È che nella forma poetica la vicenda acquisisce il respiro e la pietas di un singolo che si fa collettivo, nel momento in cui difende la sua e la generale umanità. Giulio Perelli la desidera il più possibile inclusiva, ma la verifica operante, attiva anche di fronte ai limiti, alle défaillance, le proprie non meno di quelle altrui. Singolo in una prova – limite collettiva: così si è verificato, e l’opera fissa per sempre questa verifica. Il residuo, nella consumazione estrema, è stata la prova della sopravvivenza, mortificante perché è quella che più chiude alla magnanimità, all’amplificazione, all’orgoglio della specie. Eppure questa memoria è utile, un memento salutare, offerto agli altri. Il lettore può apprendere, in un consuntivo radicale, che tali, resi “infami” dallo sgomento, dall’accecamento, dalla fame, possono diventare gli uomini. Quanto meno apprende una empatia rispettosa confrontandosi con la vicenda, evocata dall’autore proprio attraverso il respiro misurato del ritmo.

Più in generale, questa opera è conferma del fatto che la scrittura poetica è via espressiva che ciascuno può tenere presente, non meno della lettera, o della narrativa, o di quella narrativa per immagini che sono la pittura e il film. Propria della scrittura poetica è una possibilità specifica di sintesi e di coinvolgimento empatico. E tra le varietà del testo poetico, la composizione storico-didascalica ha una vitalità continua, benché, stranamente, i recensori professionisti la escludano nei loro articoli.