Annalisa Rodeghiero, Versodove, Blu di Prussia 2017 (prefazione di Nazario Pardini)

 

Annalisa Rodeghiero, nata ad Asiago, risiede a Padova, dove insegna materie scientifiche.

Ha pubblicato Percorrimi tutta (2013) e Di spalle al tempo (2015).

Versodove è una raccolta poetica carica di tensione verso l’infinito, alla ricerca di soluzione per l’ossimoro presente nell’esistere consapevole.

E la poesia, il canto, è strumento indispensabile del volo.

 

Carezza d’acqua

Aspettare anche se invano

ha un senso pieno

quando si tratta di te.

E’ la certezza d’ esistere

oltre la vista, il tatto, l’olfatto, l’udito, il gusto.

Condanna d’altri il tangibile.

Noi, carezza primaverile d’acqua

nell’insondable velo d’anima.

Mistero che unitamente ricopre

me e te e l’infanzia nello sguardo,

promessa d’orizzonti

sempre nuovi a venire.

Noi eternità. Noi sillabe. Poesia.

Cetezza del fiore in gemma che s’apre.

Certezza del frutto nell’operosità dei voli.

 

Recensioni

Franco Campegiani

Annalisa Rodeghiero ha recentemente pubblicato Versodove (Blu di Prussia Editore, 2017), con prefazione di Nazario Pardini. Si compone di due tempi, la raccolta – Di volo in volo e Incerte stagioni e inconfutati cieli – dove prende vita un canto che ha il grande pregio di aleggiare restando ancorato al suolo. Un canto di grande profondità, che direi sospeso tra un senso molto acuto e dolorante, ma mai tragico, dei limiti esistenziali e un senso di fiducioso abbandono al mistero universale, dove ogni parte è tassello di un Tutto e dove nessuno, dell’intero mosaico, ha coscienza piena. Una poesia intensamente meditativa, pertanto, dove relativo e assoluto sono funzionali l’uno all’altro e finito ed infinito si compenetrano vicendevolmente in un fuoco d’amore che tutto pervade e avvampa senza ustionare.

Può sembrare un discorso filosofico, ma non lo è. Siamo in presenza di un pensiero poetico e immaginifico che parla appunto d’amore e che riesce a farlo con emozioni pure, prive di quel flaccido sentimentalismo che fagocita il cuore facendolo schiavo di persone o cose e annegandolo nelle spire delle passioni. Qui si vive dentro una fiamma, un’onda, un soffio vitale, “un respiro di vento / che ondivago s’alza e poi scende”. E’ l’emozione del sentirsi parte di un tutto: una liberazione dunque e non un soffocamento tachicardico. La poetessa, consapevole dell’inganno, sa distinguere il tempo dell’amore edenico, pieno ed innocente, dal tempo della degenerazione e della detrazione d’amore: “Sembrava così facile allora / abbracciare l’alba, / sentirla sbocciare dentro i nidi / … / Cosa interviene dunque, dopo, / a frammentare il cielo, a incenerirlo, / forse a nessuno è dato di sapere”.

Ed è la morte dell’Eden, la separazione dell’Essere dal Non-essere, l’arbitrario ridursi a una sola dimensione, misconoscendo la naturale biforcazione dell’Essere che vuole contraddirsi nel Non-essere senza rinnegarsi in quanto tale. Un modo insomma di vivere la pienezza stando nella parte, nella complementarità. Ed ecco l’amore, a volte materno, altre volte filiale ed altre semplicemente muliebre, sempre e comunque amore per la vita, tensione verso un tu che svela un desiderio di completezza, di ritrovamento del sé: “Intermittente pulsa / non lontano dallo sguardo che ti muore, un faro. / Qualcosa di te hai perso – questo lo so – / ma molto di più è quello che hai salvato. / Tornerà intera la vita / perché sei tu a desiderarla tanto, / tu, a me così vicino nelle stanze”. Amore dell’intero, pertanto, di un Tutto che ben conosce la mancanza, l’amputazione, lo smembramento. Un Tutto inteso anzitutto come Tutto di Sé.

La vita umana purtroppo è cosparsa di fratture, di privazioni, di perdite: “Nasce un uomo / e mentre la madre / sceglie il nome, / il destino / già segna la distanza”. Forse sarebbe bastato restare semplici e innocenti: “restare in superficie era il segreto, / leggeri planare sulla vita / come aquiloni rossi al vento. / Ora il cielo pretende le risposte, / mentre a maggio fioriscono le rose”. Come dire che la verità è con noi, ci scorre accanto, ma noi non ce ne accorgiamo. Così ci allontaniamo dalla condizione edenica e dobbiamo guadagnarci il pane con il sudore della fronte. Vogliamo per i figli migliori condizioni di vita e dimentichiamo che loro ci chiedono soltanto vicinanza, carezze, amore: “E ora eccoli in fila quei bambini del mondo / che guardano i padri a consolarne il pianto. / Perché quel che conta per loro è la presa, / essere ancora mano nella mano”.

Dov’è finita quella felice e saggia età dell’oro? “Hai, ho, abbiamo reciso / il cordone che sapeva di pienezza, / passaggio necessario come un cambio di stagione”. E tuttavia è possibile uscire dall’oblio: “se puoi ricorda / quand’eri fiordaliso tra le spighe”. Ecco la speranza. Una poetica, pertanto, si, dell’assenza, ma anche della tensione verso l’oltre, verso il superamento di ogni confine. La rinascita è ancora e sempre possibile, così come possibile è il ritorno dell’aurora: “E’ nella certezza dell’alba, / nel suo periodico ritorno il senso. / Il senso unico dell’essere diversa / eppure sempre uguale”. E che dire dell’alternarsi prodigioso delle stagioni? “Ma dall’epidermide trasudano ancora / verdi aromi di sottobosco e resina / e dagli occhi una moltitudine di cieli / quasi a ricordare all’anima che d’incanti si può vivere a distanza / fino all’ora di nuova fioritura”.

Tutto muore e tutto nasce in continuazione. Ogni fine muore nell’inizio e ogni inizio sorge dalla fine. La realtà è ciclica, non lineare, e sta qui il mistero d’amore, il miracolo dell’armonia: “Perché verrà, / ne siamo certi, il giorno / in cui per noi germoglierà la terra / e oltre il sipario, / il cielo”. Un canto di fede, quello della Rodeghiero, che si sbaglierebbe a scambiare per pura e semplice preghiera. Qui non c’è alcuna invocazione del divino. Un’evocazione si, invece, perché il divino è già nel mondo e basta togliere le parentesi in cui lo chiudiamo per farlo apparire. Nondimeno il senso della precarietà è molto vivo ed è proprio quello a mantenere l’equilibrio. Anche se il timore che l’equilibrio possa infrangersi tiene sulla tormentina: “- Vedi – le nuvole infuocate / di bellezza a ponente / si sfiorano appena / con l’altra metà, nera, della volta. / Dimmi che non si scontreranno / in scroscio di dolore…”.

Direi, per concludere, che la poetica della Rodeghiero è tutta aggrumata intorno ai temi aurorali della nascita/rinascita, dell’alba perenne della vita, connessi ovviamente con quelli crepuscolari della fine. E cos’è la nascita se non l’atto ribelle per eccellenza, il big bang anarchico e creativo con cui s’infrange la piatta aridità del mondo e si fa nuova la vita? “- Lo so – ci vorrà un urlo / più forte ancora / di quello con cui ti ho messo al mondo. /… / Ma una madre lo sa / come si partorisce / la vita dalla morte”. Quella della madre è una sfida: “la certezza d’altre stagioni a venire, / la fine e il principio / nel susseguirsi d’ombra e luce”. Nulla può distrarla da questo mistero. Vestale della vita, lei attende “come gli abeti” che tutto germogli e rigermogli, ma cosa sia questa nascita-rinascita, e da dove sgorghi, lei non sa dire: “Io come loro attendo / ma non so più dire chi, né cosa”. Mistero da vivere e non da capire.

 

Anna Vincitorio

Soccorrimi se disperata cerco

il verso per raggiungere le stelle

ma non voltarti se ti sto abbracciando. (da Inafferrabile poesia)

Versodove che comprende al suo interno, DI VOLO IN VOLO e INCERTE STAGIONI E INCONFUTATI CIELI,

ci proietta verso il sogno che trova compimento nel ricordo e verso la natura: cieli, albe, tramonti attraverso cui rivela o meglio, ci confida le inquietudini, quell’amore incondizionato, sofferenza

di madre e quel sostare nelle notti lunghe foriere di misteri. Il dove mi riporta alla mente un

giovanissimo poeta scomparso tragicamente –Gabriele Bellucci-. Per lui , dove, era coagulato spazio/

di te cercano i sensi la fugace certezza (…) Dove,al suo spirito l’uomo in te condenserà l’ombre fugaci, /Dove in te della morte/ percepirà l’ultimo odore (18 marzo 1994).

Il percorso dell’autrice si proietta verso un Altrove dove intero vive il canto. Visioni, delirio per una

felicità legata al sogno, al compagno da cui attingere certezze e bisogno di librarsi verso un probabile infinito, fugatore delle angosce montaliane del vivere e infine sentirsi uccello che s’invola per poi

liberarsi nel perdersi. Compagno sempre il ricordo: la figura del padre che rischiara e, ricercare la sua

mano, è certezza.

Versodove è voler assecondare il tempo. Negli occhi il girasole che fiero s’innalza prima di precipitare

nel buio della notte. Così la speranza. C’è libertà nel nostro destino? Nell’autrice desiderio di simbiosi

anche se nella vaghezza del sogno:

 Essere io in te,

essere tu in me

divino intreccio d’orbite (…)

ora che siamo -e non che non lo fossimo prima-

stelle binarie in cerca d’universo. (da Non il caso)

Versodove è ricerca d’amore ma soprattutto d’armonia infinita che sgorga come il fiume caldo che ci scorre dentro (…) nello spicchio di mela/ tra le tue labbra umide. Sempre amore e in esso si rinnovano il mistero, l’inquietudine di un’anima assetata d’infinito e dentro un respiro di vento che infiamma la luce già accesa

Ma l’autrice ha bisogno di qualcuno che raccolga il suo grido.

Nella raccolta, accanto al sogno è compagno il dolore:

Quanto è il merito

quale la colpa

e di chi, dunque

sono davvero figli?

Di chi li ha accolti

come fiori di ciliegio il sole

o di chi ne ha rallentato il passo

come tronco di traverso all’acqua?

Miei, tuoi

o un’altra volta ancora della sorte? ( da Sul palmo segnato)

Purtroppo spesso ci domandiamo se quello che ci capita è già segnato. E se così è, che fare se non

mentre soffiano gli Alisei alle spalle cercare di levare la sabbia che inonda le nostre mani?

Come, cosa cambiare? Dice T.S. Eliot riportato dall’autrice in Incerte stagioni e inconfutati cieli:

“L’alba si leva e un altro giorno/ è pronto per l’ardore e il silenzio”.

I genitori sono protettivi verso i figli, forse troppo e magari, questo coprirli d’amore, volerli lontani dai pericoli, ne fuga l’autonomia e la capacità di separare il bene dal male e di avviarsi sicuri verso la vita.

I padri ne consolano il pianto ma i bambini guardano. Quale la certezza se non essere più forti del dubbio

e aspirare ad una rinascita nei cieli di maggio dove si apre uno squarcio tra le nubi e il petto si allarga alla speranza. Tutto può ancora succedere in nome dell’amore che giustifica il bello e il non bello della vita

e ci accompagna dalle fioriture della primavera all’autunno. Non ci sono certezze; è vero però che saremo uniti nel mistero/ nell’imprescindibile unico sentire.

Nella madre poeta viva la memoria dell’amniotico scorrerti d’acque/ attorno (…) E poi il colostro e il latte/

a lungo succhiato in estasi dall’anima...

È un testo profuso d’amore che ci accomuna e ci induce a riflettere tra le maglie della parola espressa in poesia.

 

Clara Nistri

IL TEMPO DEL VIAGGIO- LO SPAZIO DEL TEMPO

“Sai” saremo altrove.

Non è una domanda quella che si pone e ci pone Annalisa Rodeghiero nella lirica di apertura del suo nuovo libro di poesia Versodove- Ed. Blu di Prussia, ma una certezza, la certezza che nonostante il nostro impegno, i nostri sforzi per esorcizzarlo, esiste uno spazio tempo inconoscibile dove approdare al termine del nostro peregrinare d’anima.

Certo, nel come e nel quando sarà concluso il tempo del viaggio, gioca il retaggio della memoria, il credo religioso, come pure quel certo fascino che può suscitare l’ignoto, il soprannaturale, il mistero.

Potrebbe sembrare questo un discorso capzioso, ma in che misura il Dove ci coinvolge, ci attrae o ci respinge, oppure è più veritiero dire – Ci chiama? –

Un mondo non conosciuto, una dimensione altra, popolata da esseri invisibili, fatta di voci, di suoni, di luci, ma anche di nebbia, verso la quale andiamo senza una vera consapevolezza, ma alla quale apparteniamo per legge di natura: piango perché nemmeno tu/ sai dove stai andando.

Una dimensione altra, un luogo dove approdano pensieri, ricordi, sogni, anche la speranza. Le parole non dette e quelle taciute, sensazioni, emozioni che vanno a delimitare il tempo e lo spazio, ma prive di tempo e di spazio perché questa contiene soltanto l’eterno presente: Si sfaldano certezze dalla volta/ nell’incessante/ nostro mutamento, / nel nostro rimanere sempre uguali.

Però non appena addentrata nella lettura del libro mi sono resa conto con disperata certezza che il “Dove” di Annalisa è soprattutto una incolmabile, dolorosa assenza.

Solo chi si è trovato in simili circostanze può comprendere il vuoto, lo smarrimento, la solitudine e il senso di inutilità e di impotenza che cambia la vita.

Che cambia il modo di accettare la morte: È in quest’assenza piena/ che mi manchi/ come alle alghe a riva/ il dondolio dell’onda”“ Dimmi che ancora potrò sognare/ come oggi all’alba quand’ero ancora viva”.

Versi di rara umanità espressi senza preamboli, senza fronzoli, con i quali la poetessa esplora i rapporti umani, non tralasciando la presenza del sacro, del mistico e del mistero che fa da sfondo a un “Dove” nel quale si muovono queste liriche: (…) a cieli novi poi siamo impreparati, ma, che disegnano un paesaggio vario popolato di presenze anche inquietanti che attraversano gli abissi della psiche e del proprio vissuto come nella lirica – Lettera a mio padre-, bellissima, coinvolgente e commovente nella sua semplicità di parola ma forte nel sentire: Ora ti prego/ non farti in fretta figlio, oppure come in poesie più personali, più intime ma dette con forza, non sussurrate: Ora la vita, /questo averti dentro, /ora la gioia, il canto nelle vene.

Se ne deduce che i testi sono percorsi da dialoghi, echi, voci che interferiscono con il soggetto di questo dramma che è essenzialmente l’essere umano nella sua misura più genuina, vuoi come poeta, vuoi come donna.

Testi che innescano domande, interrogativi con la propria coscienza che poi in fondo è quella dei tanti che ritroveranno in questi elaborati la propria storia, il proprio vissuto, la propria spiritualità.

Saranno forse singoli viaggiatori o nostri compagni di viaggio, ma in ogni caso diretti verso il “DOVE”, magica parola dai diversi sinonimi –Oltre, Altrove, Aldilà”-, così come diversi sono gli spunti che formano il libro, primo fra tutti la necessità imperativa di non dimenticare, alla quale le parole si aggrappano con forza e disperata dolcezza insieme trasformandola in un unico cosmo, in un universo dove la poetessa si muove con la fermezza di carattere di una donna che ha sofferto, ma che ha saputo anche accettare il dolore come un viatico per continuare a vivere e crescere dentro se stessa: Sarà il bisogno d’elevarmi in volo/ a dar misura di questo mio tormento.

Eppure questo luogo così temuto e così vagheggiato ci offre, come la luna, sempre la stessa faccia, ma cosa esiste dall’altra parte?

Non ci è dato di saperlo e forse è un bene perché altrimenti non ci sarebbero poeti come Annalisa Rodeghiero e non ci sarebbero libri come questo: Dolcemente mi dici/ che in altra vita lo sapremo.

Infatti, se tutto fosse conosciuto, se tutto fosse chiaro, se… non si potrebbe conciliare la nostra ansia, la nostra finitezza con sentimenti come il ricordo, la memoria, l’ispirazione e resteremo senza cieli, senza mari, né monti né stelle, dove azzarda il nostro pensiero, la nostra fantasia: Vorrei che fosse mio, /l’intero volo bianco di un gabbiano (…), ma dove si culla la nostra speranza e il nostro Credo: Tremeranno sciolte/ come teneri fili d’erba al vento/ le nostre dita al richiamo dell’eterno.

 

Franca Alaimo

Circola all’interno della versificazione (classicamente atteggiata nella sua intelaiatura metrica, ma moderna nei suoi esiti verbali) della Rodeghiero la grazia di uno sguardo capace di coniugare slanci spirituali, sogni, struggenti tensioni verso un altrove con una piena adesione dei sensi al brulicante teatro delle creature tutte.

Anche quando sulla scena irrompe il dolore, trattato con quell’elegante pudore che esclude la sterilità della lamentatio, lo spalancamento del cuore alla vita resta identico, in nome di una fede che, direttamente testimoniata dal testo a pag. 54 Il dondolio dell’onda, dà alla parola un’impronta di fervido impegno esistenziale e un ardore etico da cui sgorga un sentimento di pietas storico-creaturale che, immerso nel tempo attuale, dà vita a versi umanissimi di impegno e solidarietà nei confronti dei sofferenti d’ogni razza e luogo.

In altre parole, la poesia della Rodeghiero appare come un flusso ininterrotto che indaga con partecipazione ogni aspetto dell’esistere: la natura, come luogo di sempre nuove epifanie di bellezza o come spazio in cui si compongono figure d’interiorità o metafore dell’assoluto; il tempo, come dimensione in cui si alternano la percezione dell’instabilità e dell’impalpabilità del reale e la certezza di un sovra-mondo eterno, l’ombra della morte e la luce dirompente delle cose vive, l’astrazione e la concretezza, il presente e il passato. E, ancora, l’amore, come sentimento che sostanzia la propria biografia di madre, figlia, sposa, amante, credente; ma soprattutto forza vitale, passione e precipizio, felicità e tristezza, tenerezza e pacatezza del cuore; e, infine, strumento di unione mistica fra gli esseri e fra quest’ultimi e il mondo.

Aderire alle sfumature dei sentimenti, alla variabilità e ricchezza delle forme conferisce  alla lingua della  Rodeghiero un notevole dinamismo coincidente con le tappe del percorso conoscitivo: l’esperienza dei sensi, l’emotività del cuore, la riflessione razionale, che sfociano in quello che, secondo la poetica dell’autrice, costituisce il ruolo fondamentale del gesto poetico: conciliare visibile e invisibile, spirito e materia, alto e basso, cielo e terra, in nome di un’esigenza etico-estetica che, includendo il reale, lo trasfiguri.

Anche la limpidezza dell’espressione costituisce un punto d’arrivo programmatico, volendosi offrire al lettore come dono di comunicabilità, ché, ad un esame approfondito, appaiono evidenti l’ampia cultura e la perizia tecnica di questa poeta che desidera risolvere il problema del rapporto fra la realtà e la poesia in una sorta di ritmo magico che sovrasti con la sua armonia ogni stridore. La musicalità è, infatti, uno dei pregi maggiori di questa silloge, cosa non da poco in un’epoca in cui la disarmonia sembra prevalere anche nel linguaggio delle arti.

 

Flavia Buldrini  (Literary nr. 10/2017)

Questa silloge poetica è pervasa da un intenso afflato lirico, un arioso respiro che aleggia nell’eterno, uno squarcio di cielo che s’affaccia dall’abisso. L’estasi contemplativa trasfigura la realtà, così che nello sterminato deserto dei giorni baluginano ardenti miraggi, s’infiammano i desideri, s’accendono i sensi. La passione del canto cavalca “di volo in volo” (titolo della prima sezione) “il tragico quotidiano” – per citare Papini -, come gabbiano sopra la spuma del mare, come dardo di luce che increspa l’onda e indora l’anima quale rutilante riva. Se poesia chiama poesia e il suo valore si riconosce dall’“aumento di vitalità”, come scriveva Elsa Morante, allora è giocoforza lasciarci inebriare dall’incantesimo malioso delle parole e, se vogliamo commentare, non possiamo che rimandare l’eco di quell’irripetibile armonia del verso, come i cerchi che s’irraggiano in un lago dopo aver gettato un sasso; perché l’acqua, come la poesia, non si può afferrare, ma soltanto lasciarla fluire lungo le sponde del silenzio, quale divina essenza che sovrasta l’umana irrequietudine: “Ti aspetterò nello slargo tra i rami / senza fretta alcuna. Saprò coglierti / dove cantano d’amore i merli. / Qui solo un senso di proiezione in alto / regna, quando perde perfino il senso / la parola se dolce-eterno è il suono. / Soccorrimi se disperata cerco / il verso per raggiungere le stelle / ma non voltarti se ti sto abbracciando.” (Inafferrabile poesia).

Nazario Pardini nella prefazione svela incisivamente l’enigma del titolo plasticamente figurato dal sentiero siderale di Alessandro Piccolomini in copertina (De le stelle fisse… De la sfera del mondo, 1548): “Ma VERSODOVE si deve dirigere la nostra navicella. Il mare è profondo e i suoi confini illimitati per la pochezza del nostro essere umani. È per questo che Annalisa azzarda voli verticali, verso l’alto, verso mete da cui si possa ammirare la terra come da una torre d’avorio.” Così, ogni fibra del tessuto del vivere si tinge delle variegate sfumature delle emozioni e diventa pretesto di meditazione poetica, d’intuizione metafisica. Teneri affetti, suggestivi paesaggi, dialettica di gioia e dolore, luce e tenebre si riverberano sopra il velo d’acqua della trasparenza dell’arte con l’iridescenza del tumulto delle passioni e delle impressioni che galleggiano sul fondo melmoso dei turbamenti interiori, setacciando un deposito d’oro: “In bilico costante / tra ciò che è luce o buio, / tra ciò che ride o piange, / tra ciò che nasce o muore: / la vita dà, toglie, la vita.” (In bilico costante); “Noi, carezza primaverile d’acqua / nell’insondabile velo d’anima. / Mistero che unitamente ricopre / me e te e l’infanzia nello sguardo, / promessa d’orizzonti / sempre nuovi a venire. / Noi eternità. Noi sillabe. Poesia. / Certezza del fiore in gemma che s’apre. / Certezza del frutto nell’operosità dei voli.” (Carezza d’acqua).

La natura è un’esuberante esplosione di vitalità e di bellezza che colma il cuore di stupore in una festa di luce: “Lo so, è sempre maggio / il mese dei voli d’oltrealtezza. / E in questo andare senza più ritorno / intero sento il respiro d’universo. / Sì, potrei cantare il gelsomino in fiore / che apre occhi come stelle / a inebriare l’aria intorno / all’ombra del mistero dei veli di magnolia; / o i quattro tigli che svettano in crinale / giostra d’api mai sazie / di ciuffi d’oro al sole. / Ma solo del nostro maggio scrivo / e so che la parola oggi non basta / e so che la pienezza gruma in gola.” (Del nostro maggio scrivo).

L’amore si modula con accenti intensi e densi di pathos: “Ora la vita, questo averti dentro, / ora la gioia, il canto nelle vene: / perché l’amore è questo, / questo sangue che pulsa nelle tempie / a tamburo battente, / è l’universo intero, / il fiume caldo che ci scorre dentro, / questo infinito / che non possiamo trattenere” (Questo infinito); “Continueremo a darcelo / l’amore immaginato nel principio / o prima ancora di affacciarci al mondo. / Sembrerà un dono, un volere degli dei / o solo luce del nostro contenerci. / Ti berrò e mi berrai / fino all’ultimo sorso, / acqua sorgiva del deserto, / sgorgo d’anima in sussurri / nel tempo dilatato della stanza. / Rimarranno schiuse verso l’alto / le nostre bocche avide d’eterno / a cogliere miele / che gocciola lento dalla luna, / e non ci sarà più notte / che non ci terrà tra le sue braccia.” (Fino all’ultimo sorso). Eppure anche questa forza viscerale conosce la stanchezza e il languore della fine, il rimpianto di ciò che è stato e ora non è più: “Cosa interviene dunque, dopo, / a frammentare il cielo, a incenerirlo, / forse a nessuno è dato di sapere. / Quel che è certo è solo ciò che resta. / Negli occhi muti, / estranee geografie da sopportare, / un rifiuto, quasi, nel guardare l’orizzonte, / solo –futuro privo di futuro- / a chi non sa godere del passato. / Perduto è allora il tempo che rimane, / serrato l’uscio a petali di rosa.” (Mai potremo dire).

In un brivido cosmico la divina brezza percorre l’anima come una carezza: “Non Ti vedo ma è con i tuoi occhi / che la guardo, / è nel mistero del creato / che Ti sento. / – Sono certa – sei Tu che muovi appena / quest’aria quasi ferma nell’attesa. / E in quest’assenza piena / che mi manchi / come alle alghe a riva / il dondolio dell’onda.” (Il dondolio dell’onda).

Annalisa Rodeghiero dunque persegue un altrove, che è l’infinito che recinge quell’“aiuola che ci fa tanto feroci”- come scriveva Dante -, oltre i confini del tempo e dello spazio, oltre i limiti dell’umana natura e del tempo dell’esistere, proiettandosi nella sfera superiore del trascendente e naufragando nell’oceano sconfinato dell’eterno: “Là dove l’armonia / sembra incrinarsi / fruttifica la parola vera e vive. / Nell’altro possibile respiro / nell’orizzonte tondo / dove il sogno chiede. / Esiste forse una mezza poesia per il poeta? / Mezzo battito d’ali per la rondine? / Il mezzo calice pieno? Il mezzo calice vuoto? / Metà fiore a primavera? / Solo una parte del cielo da toccare? / – Sai – saremo altrove, / dove vince e perde la ragione / ma intero vive il canto.” (Saremo altrove); “Tremeranno sciolte / come teneri fili d’erba al vento / le nostre dita al richiamo dell’eterno.” (In altra vita).

 

Questa è la presentazione che Sandro Angelucci ha atto di Versodove nella Sala Consiliare del Comune di Asiago il giorno 8 agosto 2017

LA POETICA DELL’INTERO IN ANNALISA RODEGHIERO

Ringrazio l’Amministrazione Civica nella persona del Sindaco, Avv. Roberto Rigoni, qui rappresentato dall’Assessore alla cultura, Arch. Chiara Stefani, per l’ospitalità concessami in questa splendida sala del Consiglio comunale di Asiago.

Per introdurvi – a mio parere, con lo spirito giusto – alla fruizione dei versi di Versodove, voglio provarmi a tentare, per così dire, un immaginario scambio d’identità.

La domanda che più frequentemente i giornalisti rivolgono ai cultori di questo genere letterario è la seguente: “Cosa è la poesia per lei?”; domanda alla quale, anche Annalisa, è stata chiamata a rispondere nel corso di una recente intervista sul plurisettimanale on line “Fattitaliani”. Così ebbe ad esprimersi in quell’occasione: “Non credo che la poesia si possa definire. La poesia per me è un modo di vivere, di essere, di porsi. Si può vivere in poesia senza necessariamente scrivere ma non si può essere poeta autentico senza fare della propria vita, poesia, senza essere già nel pensiero, poesia…”.

Tornando all’ipotetico traslato, cui poc’anzi ho fatto riferimento, vi sembrerà – non dico adulatorio (è fuori dal mio stile) – ma, quanto meno, prevedibile ciò che mi appresto a sostenere. Ebbene si: avrei risposto in modo analogo, fermamente convinto – come sono – che l’arte tutta è una scelta di vita; di più: una vocazione prenatale, mi spingo a dire,  che (non si sa come, non si sa quando) deve alfine manifestarsi.

Ecco perché – incipitariamente – ho parlato di corretto approccio all’opera. In effetti, scorrendo le pagine della raccolta della poetessa asiaghese (fin dalle prime) si ha, inequivocabile, la percezione che la chiamata c’è stata, e poco importa se, all’atto pratico, (come so) lei scriva relativamente da poco: l’ha detto nell’intervista – ed io lo sottoscrivo –: è nel pensiero che si è o non si è poeti.

Visto che ho parlato di sfogliare, iniziamo a sfogliarle queste liriche (non tutte ovviamente ma quelle che, credo e spero, contribuiranno al forgiarsi di un’idea sufficientemente esaustiva). Prendo abbrivio dalla prima, tutt’altro che per motivi di sequenzialità: Saremo altrove costituisce senza dubbio un esempio indicativo; non soltanto per quanto concerne l’opinione stessa del poetare ma – più ancora – perché in essa è possibile rinvenire il nucleo, il centro di un sistema solare intorno al quale orbitano i pianeti dell’universo poetico della Rodeghiero.

Oltre alla fitta serie di domande, che si susseguono quasi a togliere il tempo ad ogni tentativo di risposta – dalle stesse volutamente evitato, accuratamente evitato – proprio perché sia il lettore, al termine, dopo aver profondamente inspirato, a darsi l’unica risposta plausibile. Al di là di questo aspetto, dicevo, (sul quale mi riprometto di tornare), sono qui presenti almeno un altro paio di tematiche molto care all’autrice: intendo riferirmi all’attenta riflessione sui contrari ed alla, non meno puntuale, ponderazione sul ruolo che in noi deve svolgere la ragione.

Il bene e il male, il brutto e il bello, la vita e la morte si osteggiano solo apparentemente; in realtà cooperano, in nome di un’armonia superiore e indefettibile che “sembra incrinarsi” – scrive Annalisa – nel preciso momento in cui la “parola vera” inizia a “fruttificare”. Ma il regalo più grande ci viene offerto dalla chiusa: “-Sai- saremo altrove / dove vince e perde la ragione / ma intero vive il canto”: come dire che quel luogo esiste, non è un parto della fantasia; è qui, davanti agli occhi nostri, anche se la maggior parte degli uomini non se ne avvede. Poi si ode il canto, arriva la poesia. E ci dona la vista.

Prima di prendere in esame altri componimenti salienti per l’analisi esegetica, desidero soffermarmi ancora un po’ sulla lirica d’esordio, in merito alle interrogazioni sulle quali – come detto – avrei scavato. Estraggo (per ovvi motivi) dalle altre, le domande che aprono e chiudono la successione: “Esiste forse una mezza poesia per il poeta?” – si (e ci) chiede la poetessa – e, ancora: “Solo una parte del cielo da toccare?”.

Cosa si evince? Che non esistono mezze misure per chi continuamente scopre una ragione di vita nel canto. Si dirà: ecco, i soliti sognatori questi poeti; e mi ci metto anch’io, essendo uno di loro. Eppure, se me lo concedete (non vi appaia autoreferenziale) scrissi in Verticalità, la mia penultima raccolta in versi, in un testo inerente all’argomento: “Credete davvero / che la vita vi stia aspettando? /. . . . / Voi vi fermereste ad aspettare / chi passandovi accanto si volta / fingendo di non riconoscervi? /. . . . / Non siete voi quelli che dicono / che è proprio dei poeti / avere sempre la testa fra le nuvole? / Sapeste quante nuvole / ho visto / trasformarsi in terra e viceversa.”. In altri termini: è vero, saremo anche portati a fantasticare, non avremo abbastanza senso pratico ma ci sono modi e modi di sognare: c’è chi fa castelli in aria costruendo grattacieli e chi non ha bisogno di spingersi così in alto perché ha già posto le fondamenta della sua umile ma sicura dimora qui, sulla nostra Madre Terra.

Poetica dell’intero – dunque – così mi piace definire il pensiero poetante di Annalisa, avvalendomi anche di una parola-chiave, a me nota fin dalla prima lettura di Di spalle al tempo (opera antecedente  quella di cui ci stiamo occupando). Della raccolta, mi colpì in particolare un titolo: Delirio, che si concludeva con un distico che, indelebilmente, restò scolpito nella mia memoria; eccolo: “Non l’avevi capito! / l’intera gioia voglio…e il pianto intero.”.

A parte la creazione formale dell’ultimo verso – comunque da segnalare per un chiasmo di rara, esemplare bellezza – rapisce la sua circolarità da giro armonico (per usare una terminologia musicale). D’altro canto l’armonia è un tratto distintivo di questa poesia ma sarà bene ed indispensabile comprendere da cosa si origina, qual è l’interiore bisogno che spinge a cercarla.

Andando avanti con la lettura, c’imbattiamo nei versi che seguono: “Qui è quasi terra, / qui è quasi mare / ma mai abbastanza terra / né completamente mare”. Versi nati in sospensione; mi spiego: la poetessa (chi ha già il libro potrà desumerlo da p.22) è realmente a mezz’aria, a “mezza altezza” nel suo sostenersi ad una briccola, ed è da quella posizione che si rende conto di non essere né terra né mare, è da quella precarietà che sorge il sogno.

Ma allora – scusatemi – come si fa a parlare di vagheggiamento? Niente affatto: si tratta di vero e proprio anelito, concreto anelito alla libertà, come “l’intero volo bianco (si noti la bellezza della sinestesia) di un gabbiano” che sfuma in lontananza verso e oltre l’orizzonte. Oltrepassare il limite, quindi, si può ma ad una sola condizione: prima bisogna accettarlo e, se non basta, amarlo; è così che “il mese dei voli d’oltrealtezza” non è più soltanto maggio con il gelsomino in fiore, con i veli di magnolia, con il profumo dei tigli ma tempo altro di una primavera altra, cui persino la parola non riesce ad adeguarsi.

Ho appena nominato la più identificativa delle componenti che caratterizzano la scrittura ed il pensiero di Annalisa: parlo dell’amore; l’amore in tutte le sue forme e manifestazioni ma, anche, nella sua unicità, nella sua universalità di dantesca memoria.

È fin troppo facile constatarlo per il fruitore dell’opera; più difficile è seguire un percorso per nulla scontato o, troppo spesso, praticato, da gran parte degli scrittori, con superficialità. Qui no, non si cade nella trappola – e si badi, non lo dico per piaggeria – qui, per gioirne davvero, si è disposti a farsi male, a piangere se occorre, tenendo fede al celeberrimo canto, dedicato a Paolo e Francesca, dal sommo poeta, nel quale si legge: “Amor che a nullo amato amar perdona”, giustappunto a sottolineare che lambire – questo ci è dato – il mistero dei misteri comporta una grande macerazione, un tormento interiore che prelude all’estasi.

È questo il ponteggio che sostiene quella che ho definito e –  ora più che mai – continuo a ritenere la poetica dell’intero: se non ci si affida all’amore il discorso, e con esso la comunicazione, saranno sempre parziali, manchevoli della tessera più importante di tutto il mosaico. È il tassello che palesa il disegno, il tessuto che lascia intravedere il suo ordito.

Ditemi: come si fa a non leggere tutto questo nei versi conclusivi di Anna (p.50): “essere figlia del figlio che ti è nato / essere madre che se lo stringe al petto”; il parto, la vita sono il nucleo dell’atomo (d’amore) da cui ogni cosa si forma.

Spiegatemi: quale migliore metafora (mi si perdoni se ne replico la lettura) rende l’assenza, attesa, più convincentemente di quella che descrive la chiusa de Il dondolio dell’onda: “E’ in quest’assenza piena / che mi manchi / come alle alghe a riva / il dondolio dell’onda” (p.54).

Fatemi capire se non è plenitudine di vita questa: “Sembra vuoto intorno / sembra perdere importanza il resto / dopo che hai toccato per intero / con un dito il cielo /. . . . / rivivo / ogni gesto improvvisato /. . . . /. . .e sento / che pieni di tutto questo / erano dunque / quell’apparente vuoto e il resto” (p.74).

Mi rendo conto di essermi eccessivamente dilungato – e ve ne chiedo venia – ma arduo è fermarsi quando s’intuisce che i passi sono orientati versodove ci si riconosce eternità, sillabe, poesia.