Martedi 14 febbraio 2017 ore 17.00 è stato presentato il libro L’occhio di Polifemo, racconto  di Angelo Australi, 

presso il Circolo degli Artisti Casa di Dante, Firenze, a cura di Annalisa Macchia e Giuseppe Baldassarre. Letture dell’Autore

 

 

 

Introduce la presentazione Virginia Bazzechi come rappresentante del Circolo degli Artisti Casa di Dante.

 

Intervento di Annalisa Macchia

Dopo aver letto L’occhio di Polifemo, mi è venuto spontaneo cercare di definire questa scrittura, di catalogarla, secondo la nostra italiana tradizione e consuetudine, ma ho avuto qualche perplessità. Lo stile asciutto e intenso di Angelo Australi lo avevo già incontrato in occasione di un suo precedente libro di racconti, Vittoria e altre storie di volo, (Pezzini Editore, 2012), presentato a Pianeta Poesia.  Libro, per molti versi, apparentabile a L’occhio di Polifemo, e non solo per la presenza del protagonista, Spartaco, personaggio ricorrente nella scrittura di Australi e suo chiaro alter ego.

Probabilmente possiamo definire racconto anche questa più lunga e più recente prova del nostro autore, anche se le regole entro le quali si ha sempre la tentazione di incastrare le nostre letture, sfuggono e sfuggono pure le diverse sfumature che nel corso dei secoli certe definizioni hanno assunto, modificandosi non poco. Intorno a questa questione si potrebbe disquisire a lungo, ma non so quanto sarebbe utile. L’arte è allergica alle regole e, spesso, si impone proprio infrangendole, nel felice tentativo di creare qualcosa di nuovo e inedito.

Tuttavia suppongo che uno scrittore come Australi, non certo alla prima esperienza, sia ben cosciente di quello che la sua scrittura vuole significare. Il suo lavoro non è il risultato affrettato di un’idea acciuffata al volo e buttata là sul foglio, rispettando solo l’aspetto grammaticale e sintattico del testo. Chi è capace di scrivere buoni racconti, cosa non semplice né scontata – oserei dire addirittura più difficile che scrivere un romanzo – ha necessariamente interiorizzato le grandi lezioni non solo dei maestri che ci hanno preceduto, ma anche quelle autorevoli e ineludibili del nostro tempo.

Julio Cortàzar, ad esempio, nel cercare di definire la scrittura, azzarda un indovinato accostamento con il cinema, con l’arte dell’immagine: “nel cinema, come nel romanzo, la percezione di una realtà più ampia e multiforme si ottiene mediante lo sviluppo di elementi parziali, accumulativi[…] in una fotografia o in un racconto di grande qualità si procede in modo inverso, ovvero il fotografo e lo scrittore di racconti si vedono obbligati a scegliere e a circoscrivere un’immagine o un avvenimento che siano significativi […] che siano capaci di agire sullo spettatore o sul lettore come una specie di ‘apertura’, di fermento che proietti l’intelligenza e la sensibilitàverso qualcosa che va molto oltre l’aneddoto visivo o letterario contenuti nella foto o nel racconto.”

Dunque scrivere un racconto è un po’ come scattare una fotografia.  Si focalizza l’attenzione su un dettaglio, ma un dettaglio in grado di suggerire al lettore una realtà più vasta. Una sorta di “apertura” capace di proiettare la sensibilità di chi legge verso qualcosa che va al di là di quel particolare. Deve suscitare una percezione sufficientemente forte per arrivare subito perché non c’è spazio per prolungare e approfondire  la narrazione. Il lettore deve avere la possibilità di intuire, tramite quel dettaglio, anche l’aspetto psicologico del testo.

Più o meno quello che capita ne “L’occhio di Polifemo” di Angelo Australi, autore, come scrive nella prefazione Luca Lenzini, “ancorato a un suo universo circoscritto, lontano dalle mode e fedele ai propri temi, che ha messo a punto un suo “calibro” attraverso il quale passa soltanto quel che è necessario – che poi è la condizione di ogni riuscita”.

         Giustamente Lenzini ci richiama alla memoria i racconti di Romano Bilenchi, incardinati a quegli istanti in cui “senti la vita come il battito di un polso, che sospende intorno ogni altro rumore e concentra la tua attenzione solo in quel punto”.      La macchia di vino che si espande sulla tovaglia fino a oltrepassare i limiti materiali del tessuto e sconfinare nell’immenso territorio dei ricordi passati, crea il necessario contrasto, un improvviso e forte impatto con la realtà fino ad allora rappresentata, realtà un po’alienante, limitata a pochi personaggi e alla loro rassegnata partecipazione a un ambiente di lavoro troppo lontano dalle interiori e inconfessate aspirazioni del loro animo, in particolare di quello del protagonista. Su questa macchia di vino l’attenzione del lettore si arresta, si focalizza e vola, con l’autore, nell’apparentemente dimenticato, mai morto mondo di ricordi sepolti di Spartaco.

Se la scrittura di Bilenchi non è estranea alla formazione di Australi non lo sono nemmeno certe esperienze più recenti del Novecento, legate alla narrativa americana che eccelle nel genere della short story, in qualche caso arditamente definita addirittura  long short story. Basti un nome come esempio: Raymond Carver (ma non dimentichiamo Salinger, Hemingway, Faulkner… ed altri di cui senz’altro il nostro autore si è avidamente  “nutrito”. Sarebbe davvero arduo enumerarli completamente).

Nei racconti di Carver, sviluppati attorno a figure umane comuni, dolorosamente normali, non ci sono né suspence né colpi di scena, tuttavia l’emozione e la tensione corrono in ogni rigo, fortissime. Non per niente è stato ritenuto il maestro di questo genere letterario, senz’altro uno dei più letti e amati del secondo Novecento.

Anche la scrittura asciutta, piana e scorrevole, ben attenta a non appesantire le pagine, di Angelo Australi delinea personaggi del tutto “normali”, descritti con le loro insoddisfazioni latenti, il loro desiderio di prendere le distanze da una pesantezza di vita che percepiscono come insopportabile. Si rivelano, tuttavia,  in questa quotidiana disperazione, inattesi sprazzi  di luce.

Sono quegli sprazzi che arrivano improvvisi e ci colgono di sorpresa, illuminando una realtà non sempre vissuta positivamente e rendendola diversa ai nostri occhi.

Abbandonando per qualche istante la  tradizione italiana,  americana o anglofila, nell’assistere, in Spartaco, al repentino risvegliarsi di una memoria sepolta davanti alla macchia di vino, non si può non pensare a Proust e alle sue petites madeleines. Il suo fantasma piomba  con prepotenza e aleggia su quella macchia che si estende. Forse Proust è tutt’altro che un maestro di brevità… ma è indubbiamente insuperabile nel descrivere il riaffiorare del suo tempo perduto. Un tempo perduto e ritrovato, come capita anche al protagonista de L’occhio di Polifemo. Sono quegli gli sprazzi che ci salvano, a cui possiamo agganciarci per abbandonarci, almeno per un po’, al sogno e all’immaginazione; sono momenti capaci di spazzare via le ombre della realtà e di rivelarne talvolta meravigliosi angoli nascosti.

Prima di ricevere il libro in omaggio dall’autore, mi sono chiesta il perché di questo strano titolo. Una poetica e chiara risposta l’ho trovata nel biglietto che accompagnava il libro:

         “ …L’occhio di Polifemo è un iride, lo scheletro di un riccio di mare, una galassia che si trova in uno dei punti più estremi dell’universo, e anche una semplice macchia di vino sulla tovaglia bianca…”

In quanto anch’io “macchia”, devo ammettere che mi sento particolarmente coinvolta nella presentazione di stasera, involontario tramite, almeno nel nome, del luminoso repêchage di Spartaco, e consolata al pensiero che da una semplice macchia si possa arrivare a sfiorare uno dei punti più estremi e misteriosi dell’universo.

(Annalisa Macchia)

Lettura di un brano dal libro da parte dell’autore.

Mariagrazia Carraroli legge questa nota di lettura

Di Angelo Australi ho avuto il piacere di curare per Pianeta Poesia la presentazione del romanzo L’usignolo di provincia ( Mauro Pagliai editore 2010 ) nel marzo 2011 a Firenze alla Biblioteca delle Oblate.

Quel lavoro richiamava nel titolo la raccolta poetica di Pier Paolo Pasolini L’usignolo della Chiesa Cattolica in cui l’autore esternava delusione per una società falsa e vuota di coscienza morale. Quella degli anni ’50-’60, gli stessi del romanzo di Australi che percorre un brano di vita del ragazzino Spartaco deluso dal comportamento degli adulti di casa…

Nel 2012 ho avuto l’occasione offertami dall’autore di leggere Vittoria e altre storie di volo ( Pezzini editore 2012 ) il cui primo lungo racconto delinea con sensibile maestria i contorni dell’animo femminile, restituendoci con credibilità i moti più genuini d’una donna solo all’apparenza comune. I successivi due racconti brevi porti al lettore con penna asciutta e intrisa di poesia confermano lo stile misurato e sobrio dell’autore. Stile che, ne L’occhio di Polifemo recentemente pubblicato, trova ulteriore, gradita conferma. Lo sottolinea bene nella prefazione, Luca Lenzini che così definisce l’autore : Appartato e parco nella scrittura, ancorato a un suo universo circoscritto, lontano dalle mode e fedele ai propri temi, ha messo a punto un suo “calibro” attraverso il quale passa soltanto quel che è necessario – che è poi la condizione di ogni riuscita. In questo, egli eredita da una tradizione che si pensava smarrita o sommersa nella palude mediatica, avvilita e tradita negli stereotipi della “società dello spettacolo”: una tradizione non solo italiana, novecentesca ed a sua volta radicata in un terreno nobile ed esigente. Riaffiora in queste pagine, come un fiume carsico, senza darlo troppo a vedere, ma non senza evocare maestri di lungo corso. (pp.5/6)

L’occhio di Polifemo ha lo stesso protagonista del romanzo citatoall’inizio di questa nota. Spartaco, il ragazzino amante dei voli ( in bicicletta) e di quelli dentro a sogni e fantasticherie, è lo stesso. Ma cresciuto, alle prese con il lavoro in fabbrica, verso il quale si avvia in ore mattutine assonnate a causa delle incessanti letture serali e notturne avidamente consumate anche nelle pause dell’attività lavorativa… Solo Irene sorride alle sue entrate in ritardo e solo a lei Spartaco confida la quiete che gli infonde la musica, anche quella più scatenata, e la necessità di cantare a voce alta durante il lavoro per lenirne la difficoltà di approccio e dimenticare la ripetitività dei gesti che comporta…

Tutta la scena del racconto si sviluppa dentro ad un ristorante frequentato durante una cena aziendale offerta dal principale. Tra i fondali dell’allestimento scenico passano personaggi, situazioni, bevute e battute che una macchia di vino dilata fino a toccare sogni e memorie evocate con un’asciutta tensione lirica capace di ridisegnare i volti e le circostanze consuete, per tratteggiarne l’intima verità. Quella non solo del vino. Quella cioè che muta la luce dei lampioni, del cielo stellato e dei fari delle auto in un incantesimo. E se nelle ultime righe dello scritto la magia sembra terminare, non finisce per fortuna mai nelle risorse di sogno e poesia con le quali l’autore Angelo Australi riesce a tessere ogni volta la sua e le sue storie.

Giuseppe Baldassarre interviene sull’aspetto stilistico, efficace e chiaro, dell’Occhio di Polifemo, e sul genere del racconto, con cui Australi racconta in modo acuto e personale il vivere sociale.

A conclusione Angelo Australi legge un breve racconto inedito che sarà pubblicato a breve su Nuovi Argomenti e dialoga con il pubblico.