ANNA VINCITORIO, BAMBINI, BLU DI PRUSSIA 2016

Poesie dedicate ai bambini in guerra, invisibili, abbandonati.

“I versi vanno svelti: devono correre per star dietro a sentimenti

che fluttuano a cascata.”

(dalla Nota critica di Nazario Pardini).

 

 

Bambino in guerra

Betulle dalle foglie ovate,

lisce, verde traslucido

nella campagna coltivata a grano

Ancora non maturo il tempo

per la sua chioma d’oro

Non odo i tuoi passi

ma ti aspetto:

Lampi negli occhi chiari,

perle tra il rosso delle labbra

Nelle tue mani

la mortale stretta

del kalashnikov

Dove la tua innocenza?

Tuta mimetica, elmetto

e lunghi anfibi

Perché bambino?

I girasoli hanno reclinato

la testa

e il sole non raggia

l’oro dei tuoi capelli      (p. 13)

Il libro è stato presentato il giorno 11 ottobre 2017 al Lyceum di Firenze da Carmelo Mezzasalma e Sandro Angelucci. Si acclude qui la relazione di quest’ultimo.

”  Tirare le somme – dopo aver letto una plaquette, come questa di Anna Vincitorio – non è possibile: non perché non lo consenta l’esiguità della raccolta, il numero ristretto dei testi in essa contenuti; al contrario, è la vastità, l’universalità dell’umana tragedia qui sollevata che non permette di chiudere il discorso.

La mia, dunque, vuole essere – e  sarà – una nota che fa il punto della situazione ma, contemporaneamente, un intervento che si propone di suscitare, insieme al desiderio della lettura dell’opera, un costruttivo silenzio: quello della solidarietà ma anche quello della responsabilità, quello dell’invettiva ma anche quello della vergogna.

Per questi motivi, mi piacerebbe domandare ad un ipotetico lettore dei versi di cui ci stiamo occupando: cosa si prova dentro – nell’intimo –, quale risonanza hanno fatto vibrare nell’animo le parole di Anna?

Come – si dirà – proponi di tacere e poi solleciti una risposta? Pertinente osservazione: in realtà, non è di una replica che necessito bensì di ascoltare la voce muta delle deduzioni, il pianto sommesso del bambino che è in noi.

Già; perché lo ricordiamo – nevvero? – che tutti siamo stati bambini, e tuttora lo siamo sotto il cumulo di scorie che quotidianamente ci opprime e ci toglie il respiro.

Lasciate, allora, che vi racconti delle lacrime – invisibili, silenziose – che hanno rigato il volto del mio di bambino, mentre (parafrasando una delle più emblematiche poesie qui contenute: Bambini invisibili) “sord(o) alle immagini . . . interrompe(vo) il video / e spegne(vo) la luce.”.

Lasciate che vi dica che, senza questo primo passo, non avrei mai potuto vedere quel bambino, che sento ancora vivere in me, imparare a camminare.

Lasciate che vi rammenti che qualcuno ci teneva le braccia quando incominciammo ad avvertire il bisogno di muovere le gambe.

Chi sostiene, invece, quelle di questi bambini? Sono le mani di “un ingegnere in pensione della multinazionale Boeing”, arrestato grazie al racconto di Abdul, uno degli adolescenti dello zoo di Roma, per adescamento di minori (come si evince dal reportage di Floriana Bulfon e Cristina Mastrandrea, pubblicato su L’Espresso e successivamente ripreso in un articolo di Repubblica del 19 gennaio 2016).

Mani che “marchiano” vite “perdut(e)” prima ancora d’essere spese (di nuovo parafrasando la Vincitorio della toccante lirica che prende spunto dal tragico fatto di cronaca nera).

Che, queste, siano macchiate di sangue è ovvio e persino superfluo ribadirlo: meno scontato e di fondamentale importanza è osservare le proprie, di mani, e accorgersi che tanto pulite – come crediamo – non sono.

Sia chiaro – mi preme sottolinearlo – non intendo fare nessuna predica (lungi dalle mie intenzioni): voglio soltanto invitarci a verificare se anche a noi non occorra un po’ di sapone.

L’autocritica non potrà che giovarci: non fosse altro che nell’aiuto, che ci darà, a guardare le cose da una prospettiva diversa. Un punto di vista non punitivo nei nostri confronti né accusatorio nei confronti di chi – è ovvio – va condannato.

Il giudizio, che rivolgiamo a noi stessi, in questo caso va inteso come etimologicamente suggerisce la radice ellenica della parola “critica”, ossia derivazione di tékhnē: “arte del giudicare”. Ecco perché il biblico “non giudicare” forse (dico: forse) andrebbe interpretato proprio in questo senso: non giudicare per non perdere la serenità di giudizio.

Ma – se me lo consentite – vorrei aggiungere dell’altro; non meno rilevante sotto l’aspetto delle cause sociali che danno luogo ad un fenomeno aberrante e umanamente inconcepibile quale quello di cui si tratta in queste pagine.

Quando si arriva a calpestare l’infanzia al punto di far scattare un moto di ribellione e di ripulsa come accade scorrendo i versi di denuncia della plaquette in questione: spaccati di cronaca – attenzione – e non frutto di fantasia. Quando si arriva a questo – dicevo – non si può che pervenire ad una conclusione: il tempo, il nostro tempo; l’uomo, questo uomo, è malato.

Non c’è altro esempio, non esiste in natura che a coloro ai quali viene affidata la prosecuzione della vita, e dunque il futuro, vengano perpetrati simili oltraggi e nefandezze di ogni tipo.

È difficile farsi una ragione di tanta efferatezza ma non meno arduo è liberarsi dalla presunzione di bontà. Eppure, la parola che determina tale difficoltà è stata appena pronunciata: è “ragione”.

La ragione, quando non svolge il ruolo che le compete, diventa assolutista e prevaricatrice; ed è in quel preciso momento che cominciano i problemi.

Abbiamo costantemente sotto gli occhi gli effetti di questo squilibrio: dall’odio razziale all’insofferenza ed alla prepotenza quotidiane; dalle vite spese a rincorrere i falsi miti del denaro, del potere e del successo a quelle dissipate ed indigenti di coloro che sperimentano sulla propria pelle le incongruenze delle realtà metropolitane.

Di cosa ci si stupisce allora? I bambini sfruttati e violentati non sono che l’ultimo giro di spirale di un vortice di pazzia che sta inghiottendo il genere umano.

Mi si confuterà che essere folli (come usualmente si dice) significa aver perso il lume della ragione: ed è vero, ma niente affatto in discordanza con quanto finora ho sostenuto.

Di certo, non è in senso illuministico che l’intelletto dà il meglio di sé ma riconoscendosi, avendo l’umiltà di riconoscersi pensiero di un’intelligenza più grande, universale e primigenia.

So di essere stato crudo e non mi meraviglierei neppure se qualcuno pensasse che altre sono le strade da percorrere per una più fruttuosa ricerca delle cause che producono effetti tanto aberranti.

Ben vengano altre idee: dal confronto non si può che uscire arricchiti; tuttavia – credo – non ci sarebbe percorso che ci porterebbe a conclusioni differenti: fenomeni tragici (come quelli di cui Anna si è fatta poeticamente portavoce) hanno radici nella follia.

È dunque chi è malato di mente – e, si badi, non soltanto nelle forme estreme e patologiche – che, solo, può realizzare deviazioni del pensiero altrimenti incomprensibili: come se qualcosa fosse definitivamente saltato in ciò che tiene unita la complessa integrità dei meccanismi psico-comportamentali e spirituali dell’essere umano. E, con essi, la piétas, il senso di paterna e materna protezione, l’identificazione nell’altro, soprattutto nel dolore dell’altro.

Ci tengo: non voglio con questo escludere la convivenza del bene e del male in ognuno di noi; è naturale che sia così. Artificioso e perverso è che gli stessi non vengano armonizzati e non cooperino alla realizzazione di coscienze individuali più sane e, conseguentemente, di una più equilibrata e serena collettività.

Satana, etimologicamente, è “colui che separa” (il Prof. Mezzasalma vorrà confortarmi in proposito).

Sono convinto che nulla più della ragione, quando non sa stare al suo posto, sia davvero diabolico.

Permettetemi di chiudere con questi miei versi che – fuori da ogni autoreferenzialità, ma con l’intento di esprimermi nel modo a me più congeniale – dedico alla cara amica, all’incomparabile sua denuncia in poesia, ed a tutti coloro che hanno a cuore il futuro del mondo:

Due sorrisi

Ho incontrato due bambini

tenevano per mano due sorrisi.

Dentro quegli occhi limpidi,

sui loro visi ho visto

sorgere ancora, intatto,

un Sole irraggiungibile.

Nel lampo degli sguardi

la vastità di oceani,

di cieli interminabili.

E l’estasi,

la luce folgorante

di stelle lontanissime.

(da Verticalità  pag. 66). ”

Sandro Angelucci