Lorenzo Mercatanti, Il babbo avrebbe voluto dire ti amo ma lo zio ne faceva anche a meno, Edizioni Italic Pequod 2014 , pp. 194

 

 

Una nota di Annalisa Macchia

Pulsa ancora il cuore del ragazzo con la passione per il calcio in questo maturo portiere, l’io narrante della storia, che, superata l’adolescenza, si trova ad affrontare le prime crisi dell’età adulta. In uno stile a metà tra il colloquiale e il simpaticamente rassegnato, affiorano nei dialoghi dei personaggi, vecchi e nuovi problemi.  Tuttavia, in un mondo in cui tutto sembra vacillare, resiste inalterata e impermeabile alle sconfitte, la caparbietà di volere ancora scendere in campo, quasi che, riuscendo a respingere un pallone dalla propria rete, miracolosamente si possano respingere anche le difficoltà della vita. E, forse, è proprio così, sembra suggerirci sorridendo tra le righe, l’autore.

 

Recensione di Angelo Australi

Ci sono alcuni elementi che mi fanno ritenere la scrittura di questo romanzo di Lorenzo Mercatanti interessante nella forma, nel linguaggio, nel modo singolare in cui la trama si intreccia in una narrazione scorrevole, sospesa tra passato e presente. Il personaggio, nel ritorno in auto da una partita di calcio a cinque disputata sotto una pioggia battente, costruisce per flash memoriali su famiglia, infanzia, lavoro, compagni di squadra, una foto della sua identità. E’ una sorta di viaggio nella contemporaneità, in piena crisi di valori. Ha giocato questa trasferta di calcetto contro la squadra seconda in campionato, dando tutto quello che è possibile dare da un quarantenne, di fiato e di energie fisiche. Gioca in porta, e come lui ci sono altri un po’ avanti con gli anni. In tutto il campionato non hanno ancora vinto una partita, ma insistono a giocare, a mettercela tutta, perché hanno l’illusione di fare ancora gli eroi un po’ come si fa quando siamo giovani.

Qui sta il senso malinconico del messaggio, risolto con un linguaggio che arriva dal basso, pieno di ironia e per niente lirico. O meglio, una sorgente lirica viene ben nascosta dall’autore dentro il crogiuolo delle situazioni che si susseguono distillate nei vari capitoli del romanzo, dove ogni flashback e/o pensiero è raccontato al presente, come immagini istantanee di un viaggio frettoloso tra i ricordi che sembra senza soluzione di continuità. Il gioco è cercare questo filo nascosto dietro un cinismo velato di un sarcasmo tipicamente toscano che oggi mantiene tutta la sua vivacità, la sua naturale freschezza, rispetto alla convenzionalità in cui si è trasformato il linguaggio per tanti nostri comici, anche tra i più famosi e ricchi.

Giocare al calcio a cinque consente al personaggio narrante, di cui l’autore non ci fa sapere il nome, di mantenere viva una via di fuga da quel vivere quotidiano, pieno di sconfitte e di delusioni, al quale si sta ormai abbandonando. Cito questa mezza paginetta di dialogo, dove il rapporto in famiglia con moglie e figlia è descritto con un’ironia sottile, ma pungente:

“Te ne vai di già, allora ciao,” fa mia moglie, ha sentito che salutavo la bambina.

“Sì, ciao, tra l’altro… visto siamo in argomento…“

“Che argomento? Che te ne vai a giocare anche stasera?

“Sabato prossimo potremmo fare un’amichevole con la serie B, il mister l’ha già quasi fissata, dice dipende tutto da me…”

“Anche il matrimonio dipende da te.”

“Prima di dare l’ochei vuol sapere se ci sono o se…”

“Ho capito, ti ho detto anche il matrimonio dipende da te.”

“Mamma! Te il babbo non lo lasci da solo.”

“Ma io non lo lascio da solo. Lo lascio con il mister.”

 

Fa venire in mente certi racconti di RING LARDNER, raccolti in “The Big Town” (La grande Mela) edito in Italia da Mattioli 1885, oppure a situazioni comiche come sa raccontare Gianni Celati, o anche il gruppo degli autori pubblicati dalla Casa Editrice maceratese Quodlibet: Ermanno Cavazzoni, Daniele Benati, Ugo Cornia.

La storia è ambientata in una Prato interessata dalla crisi economica degli ultimi anni, dove il personaggio centrale, che è poi l’io narrante, fa l’agente di commercio di filati. Ci sono i cinesi, una periferia industriale fatta di capannoni abbandonati; che si è andata via via degradando negli anni lo si capisce da come si dispongono i ricordi, e si è pure consapevoli che quel tipo di sviluppo, anche nei periodi migliori del boom economico degli anni sessanta e settanta del secolo scorso, oltre al benessere fabbricava tante profonde solitudini individuali.

In Il babbo avrebbe voluto dire ti amo ma lo zio ne faceva a meno ho riscontrato più piani o livelli di lettura, s’intersecano in tutto il racconto che si svolge in una sola giornata, quella della partita a calcetto.

Un primo livello è la città di Prato, distretto del tessile, ormai in piena crisi, che sta sullo sfondo ma è ben manifesto come condizioni ogni vita, ogni realtà individuale. “A Prato non succedono mai tragedie” diceva lo zio, “perché Prato non è una città-madre, Prato è una città-padre. Non è una città-madre che piange, si dispera, urla, si strappa i capelli quando un figlio muore, s’ammazza, combina un guaio, dà di matto e scappa con una ballerina. E’ una città-padre che ti dice, scendi giù in strada che sei grande, guardati intorno e trovati un lavoro, impara a cavartela da te!”

A questo livello naturalmente includerei tutti i rapporti di lavoro, i colleghi, i clienti.

Un secondo livello di lettura è nel legame padre-figlio, sempre annodato al precedente, ma anche colmo di cose non dette nel gioco dei ruoli, causa di conflitti e cocenti delusioni.

C’è poi il tempo dell’infanzia, dell’adolescenza, al quale il personaggio narrante è ancora legato anche grazie al calcetto.

Un altro livello, il quarto, per continuare con la numerazione, nasce e si sviluppa con i compagni di squadra e l’allenatore, da tutti vissuto prima, durante e dopo la partita, attraverso i pensieri del personaggio narrante. Questo è come una sorta di metafora, se vogliamo, di dichiarazione poetica, sul come si può ancora tentare, con fatica, di fare gli eroi ai nostri giorni, cercando un comune obiettivo da raggiungere, o almeno da sognare. Cito volentieri l’incipit iniziale dedicato alla poesia di Franco Manescalchi, dal libro “Le scapitorne”: Non si torna ragazzi, ma si torna come ragazzi per le stesse strade.

Ci trovo anche un quinto livello, forze quello più importante, che vela un po’ tutto il racconto di malinconia, ma lo tiene anche insieme nascondendo quella traccia di lirismo a cui accennavo in precedenza, e che è molto più profondo. Parlo della figura dello zio del personaggio narrante. Uomo libero, fuori dagli schemi, non si è mai sposato. Beve, è fuggito con una ballerina di Night che dopo alcuni giorni lo lascia. Totalmente diverso dal fratello, che sembra addirittura fare da padre anche a lui, almeno sul lavoro. E che da vecchio vive alla casa di riposo. Credo sia questo il “mediatore” del romanzo, colui che porta il nipote/narratore ad avere nella mente altre possibilità, altri passaggi all’orizzonte, altri possibili ponti verso un’altra vita, mai vissuta, ma sempre presente, desiderata. Un po’ com’è la letteratura per chi sceglie di scrivere, in un certo senso, che si raggiunge la conoscenza attraverso la sofferenza. Certo non è obbligatorio piangere, ma i passaggi di crescita sono segnati dalla consapevolezza che l’ingegno umano non può vincere il destino.

Chiuderei la riflessione su questo bel romanzo di Lorenzo Mercatanti, con questo intenso passaggio narrativo, ricco di autentica poesia.

“Quel giorno non trovavo lo zio: Perché quello era il giorno del suo primo ricovero forzato e per me valse il detto: la prima volta non si scorda mai. Mi ero appena alzato e non c’era al solito posto. La mamma aveva potuto pulire il vetro ma la gente per strada sembrava ugualmente stanca di andare e venire.

Il babbo e la mamma erano in cucina, seduti, tutti seri.

Me lo dissero e io scappai.

Mi ricordo bene di quel giorno che mi infilai sotto il letto e guardai il materasso, con sotto le molle come le sbarre di una prigione stramba, con sotto io… le molle erano la mia passione…

Di solito era bello stare là sotto, lontano dal cortile di scuola dal parco giochi da tutto quanto… guardare… quelle belle molle e sorridere di quelle belle molle…

bellllllllllllle mollllllllllllle

tranquille

tranquillissime

gioiosissime

Di solito era bello quel rifugio ma quel giorno era solo un rifugio, e non bastava, e la polvere mi riempì il naso e gli occhi e un brutto sapore in bocca, mi bruciavano gli occhi così forte, e io allora piansi…

Per via dello zio.”