Lidia Are Caverni, Parvulus, Edizioni Alimena – Orizzonti Meridionali, 2017

 

 

 

Parvulus

non è che il fruscio breve
di mosca catturata
nel bicchiere
l’onda fresca della tua mano
il niente che mi bisbiglia.

 

Prefazione di Annalisa Macchia

Parvǔlus, il suggestivo e significativo titolo di questa nuova raccolta poetica di Lidia Are Caverni, suggerisce un significato di piccolezza, qualche cosa di minima importanza, un niente, come lo definisce l’autrice nella breve presentazione. Non si resti tuttavia ingannati dall’ambigua pluralità di significati attribuibili a questa parola. Questo niente è il “il fruscio breve di mosca”, “la tacita impronta del moscerino”, “ il niente che nessuno vede”…, il “[…] niente che circonda il poeta, la solitudine densa di suoni e di musiche con cui chi scrive si pone in rapporto con l’altro […]”. Una parola che solletica pure memorie leopardiane, sebbene Giacomo Leopardi non l’abbia mai nominata nei suoi scritti, ad essa preferendo il termine nulla per indicare la sensazione di piccolezza dell’uomo imprigionato nel suo pianeta di fronte all’immensità dell’universo: “questo globo ove l’uomo è nulla, / sconosciuto è del tutto” (la Ginestra). Una consapevolezza che, paradossalmente, induce alla scoperta della grandezza e nobiltà della natura umana, al suo eterno desiderio di superare ogni finitezza e nullità.

Sensazione non del tutto estranea alla nostra autrice se, precisando questo concetto, afferma che il suo niente non è assenza, ma essenza e infinita ricchezza di suggestioni, invisibile soltanto a chi ha occhi incapaci di guardare oltre l’apparenza. Lidia Are Caverni sa perforare questa apparenza, inevitabilmente ricongiungendosi ad echi poetici che l’hanno preceduta sulla stessa lunghezza d’onda. Affascinata, senza cessare d’interrogarsi, montalianamente indagando sul non-senso della vita, ma cosciente che non arriveranno risposte capaci di dissetare le sue “inesprimibili arsure”.

Come in altre precedenti opere, permane in queste ultime poesie dell’autrice, un sentimento ambiguo di adesione e perfino di estatica simbiosi con il creato, seppure mediato dal desiderio inappagato e inappagabile di carpirne il profondo senso. Un movimento oscillante tra dramma e gioia, tra memorie passate e percezioni presenti e future, percorre ogni testo e fa risaltare questa particolarissima visione dell’esistenza. Le scelte linguistiche e grafiche utilizzate nel tentativo di trovare una lingua superiore ai nostri balbettii, una lingua universale che tutto possa spiegare, sono eleganti e raffinate. Il consueto procedere senza alcun segno di interpunzione, salvo il punto finale della poesia, l’uso sapiente di enjambements e figure retoriche, dà vita ad un fluire rapido di immagini e sensazioni che tende ad eliminare ogni barriera tra la percezione reale delle cose e la rielaborazione mentale delle stesse. Si arriva così ad una fusione tra coscienza e inconscio, sull’onda di quel “flusso di coscienza” che, in epoca post- freudiana, ha caratterizzato tante tecniche di scrittura di illustri narratori trovando, in poesia, un terreno ancora più fertile.

Il confuso, un po’ criptico avanzare per libere immagini e sensazioni, suscita nella mente del lettore impressioni oniriche, cariche di emotività. La realtà viene filtrata dall’autrice e restituita in una dimensione ideale dove anche lo scorrere del tempo sembra arrestarsi. L’uso frequente dell’imperfetto in alcune sue precedenti raccolte, teso a definire un vago tempo dell’anima, è qui sostituito da un presente che si impone ad ogni lirica e sottolinea l’unicità e la continuità della dimensione rappresentata, tutta permeata da un sottile e tragico sentimento di sconfitta nei confronti dell’esistenza, mai disgiunto, però, da uno struggente e irrinunciabile sogno di redenzione: “ Nel palazzo del sogno / potrei forse trovare / il segreto del tempo / avrebbe può darsi / il tuo volto / o quello che non ancora / conosco / sorrisi di sembianze / accattivanti / per domandare permessi / che non posso concedere / per dire parole / che non so ascoltare”.

Può davvero la parola essere sufficiente a dire quanto la persona vorrebbe esprimere? Il nostro secolo, reduce da un Novecento stordito da linguaggi sperimentali e post-sperimentali, ha ricevuto una difficile eredità poetica e, in mezzo a tante esperienze, a tante voci sopravvenute, non è così semplice orientarsi alla ricerca di una via espressiva modernamente e degnamente capace di riflettere i sentimenti dell’uomo, le sue meraviglie, i suoi drammi.

Lidia Are Caverni la parola sa corteggiarla, conosce ogni trucco per farla volare tra le pagine, per attribuirle ritmi e sonorità, per ricondurre il lettore ad arcaiche e più condivisibili armonie, ai suoni e alle musiche nascosti nei silenzi e nelle contemplazioni: “Una melodia non è / quattro strimpellate di arpeggi / statici violini / non sempre sette note / creano armonie / come il pulsare denso / del tempo / che dentro vi scorre”. Soggiogata e affascinata dalle misteriose musiche del mondo, tuttavia l’autrice si piega all’“invincibilità” che la circonda e si abbandona spesso alla malinconia: “Se fosse ogni cosa / vincibile / sarebbe dolce la resa / come un quieto svanire / nel nulla”. E ancora: “Le mie malinconie / non le conosci che un po’ / del mio riso non sai / che scuote la pelle”.

Sono particolarmente brevi le liriche di questa raccolta; talvolta assumono perfino l’aspetto di aforismi o si configurano in piccoli quadri in cui il senso si concentra, risultando, per tale motivo, ancor più intense e pungenti. La voce che parla tra i versi affonda le sue radici in un Io lirico che non si accontenta di esprimere personali stupori e angosce, ma sa proiettarsi anche verso l’esteriorità per cogliere ogni possibile legame tra il sé e l’altro, “[…] E l’altro è un interlocutore senza volto, racchiuso nell’interiorità o che di volta in volta prende l’aspetto oggettivo dell’umano, per coglierne quel che sta dietro l’apparenza […]”, ci suggerisce ancora l’autrice. Un “tu” disseminato per tutta la raccolta, con cui la poetessa stabilisce un contatto, umilmente disposta all’ascolto, mossa dall’ansia di poter decifrare il mistero della nostra dimensione umana, di incanalare la sua accorata ricerca verbale su binari meno precari del “sé”: “Avresti potuto condurmi / per mano / e come non so / a indicarmi cammini / ma ridi / e il mio sentiero è irto / di spini”.

In fondo tutta la poesia è alla ricerca di un tu, di un altro. Paul Celan, parlando della sua poesia, ha saputo mettere bene in evidenza questa dimensione dialogica: “La poesia, essendo non per nulla una manifestazione linguistica e quindi dialogica per natura, può essere messaggio nella bottiglia, gettata a mare nella convinzione – certo non sempre sorretta da grande speranza – che esso possa in qualche giorno e da qualche parte essere sospinto a una spiaggia, alla spiaggia del cuore, magari. Le poesie sono anche in questo senso in cammino, esse hanno una meta. Quale? Qualcosa di accessibile, di acquisibile, forse un tu, o una realtà aperta al dialogo”.

A chi si accinge a leggere Parvǔlus, lascio volentieri questa riflessione e l’invito a sbirciare nello spiraglio che essa apre, nella speranza che qualche messaggio in bottiglia possa approdare a qualche spiaggia, a quella del cuore, magari.