Annalisa Macchia, Il bestiario delle bestiacce, Pagine, Roma 2020

Un piacevole libro di poesie di Annalisa Macchia sugli animali non piacevoli, per pregiudizio, le ‘bestiacce’ appunto. Una nuova bella prova di scrittura poetica dell’autrice fiorentina.
                     

Scorfano

Ti hanno stanato.

Te ne stavi nascosto

sul fondale

immobile

mimetizzato tra rocce ed alghe.

Ora, più immobile ancora

sporgi l’enorme labbro

in piega amara.

Ritte le insidiose spine.

Fissi, spiritati gli occhi

dove luccica

un assurdo mare d’aria.

 

Umano:

Non pensavo tu fossi tanto brutto.

Sei pur sempre creatura del Signore.

Ma dire “brutto” ha senso? Dopotutto

Se un brutto c’è per te è il Pescatore

 

Scorfano:

A me, Scorfano, brutto? Chi lo dice?

Guarda la Scorfanina che splendore.

Brutta sarà semmai la Pescatrice

E mi fa quasi pena il Pescatore.

 

Dalla Introduzione di Franco Manescalchi:

L’arguzia, simile a una lente di ingrandimento, fa vedere le cose come realmente sono e non come vorrebbero apparire, ed è una caratteristica tutta Toscana, non ad personam come la satira, ma, all’opposto, stimolo alla vita di relazione. In questo senso Annalisa è una Maestra che ha connaturato l’uso di questo grimaldello per entrare all’interno dei luoghi comuni che imperano nella comunicazione. Per farlo, usa intanto il titolo, “Il bestiario delle bestiacce”, una definizione non sua (bestiacce), ma che appartiene alla gente comune, la quale ama fare piazza pulita intorno a sé cominciando a definire il mondo che la circonda a suo uso e consumo. [ … ] Annalisa, in queste sue poesie, usando l’arguzia, in modo particolare parla a nuora perché suocera intenda, ovvero usa la metafora pe il discorso rivolto all’uomo, con sorriso quasi irridente affidato alla maestria dei versi.

Dalla Postfazione di Plinio Perilli:

Di queste bestiacce cadenzate in quartine ci piace tutto: il ritmo, il vocabolario parascientifico ma in fondo umanista, l’ironia a iosa, l parvenze o essenze gnomiche, insomma l’impianto parodico, che non ha e non vuole avere la pregnanza simbolica, l’accelerazione apocalittico-paradigmatica di certi bestiari medioevali, e neanche le verve magari delle citate favole secentesche, tutta cipria parrucche e crinoline, adibite a motteggiante critica sociologica.

 

Una lettura critica di Daniele Barni:

Il bestiario delle bestiacce di Annalisa Macchia è un libro di poesie originale, che sa accogliere con leggerezza di modi contenuti gravi: l’autrice si rivolge al lettore con il linguaggio semplice, eppure non facile, dell’essenziale, a volte in tono d’affetto, a volte d’ironia, spesso in maniera arguta, sempre con l’intenzione di condividere con lui il fagotto d’amore e di dolore racimolato e annodato nella vita.

La raccolta ammicca alla favolistica greca e latina di Esopo e Fedro, ai bestiari del Medioevo, a Le Bestiaire ou Cortège d’Orphée di G. Apollinaire, ma, appunto, è solo un ammiccamento che nasconde uno sguardo del tutto nuovo: essa è composta da trentatré poesie dedicate agli animaletti più umili e spesso più disprezzati dall’uomo, come il pidocchio, il rospo, la serpe, la scolopendra, lo scarafaggio, più un testo di chiusura, immancabile, rivolto al coronavirus Sars-CoV-2. Ogni poesia è divisa in tre parti: una sintesi, un’antitesi e una tesi, come in una specie di hegelismo all’incontrario. Nella sintesi iniziale, perlopiù in versi liberi, la poetessa introduce l’animaletto, personaggio di un momento lirico e simbolico. Lirico, perché, spesso, il piccolo protagonista si ritrova a essere il punto focale di ambienti ed esperienze appartenenti ai ricordi dell’autrice, da cui non è difficile aspirare gli odori della campagna toscana o restarne abbagliati dai colori: da Calabrone: “Quando arrivavi/caracollando sul grosso corpo/giallo e nero/appeso a ridicole ali/ma foriero di orribili punture/si scappava all’interno della casa./Chiusa ogni porta e finestra./Di corsa a spiare dal vetro/il tuo volo. Uno solo./È andato finalmente./Porta visite!/ dicevano le donne/tornando guardinghe/all’aperto/congetturando ridenti/sul nuovo arrivo.” Simbolico, perché tutto è immediatamente trasfigurato in esempio, in esemplarità: da Ragno: “E tu, bottone in bilico/sulle esili otto zampe/indifferente/regali la tua meraviglia [la ragnatela, ndr]/a un muro scorticato/a una sedia sbilenca/a una finestra/da troppo tempo chiusa.”; da Cicale: “Gridano inesauste il loro canto./E canto fa rima con pianto.” Nell’antitesi e nella tesi, invece, dopo la parte narrativa, si ha un dialogo allegorico, perlopiù in endecasillabi, in cui si confrontano l’uomo e l’animaletto protagonista. Allegorico, perché le loro parole riverberano sempre, al di là dell’occasione, messaggi e significati morali, a mo’ di ammaestramento, quasi di proverbio. Ed ecco pure perché ogni componimento si concluda, non con la sintesi, ma con la tesi, come in una specie di fenomenologia dello spirito hegeliana al rovescio, perché rimpolpato in essa sta il nocciolo di senso sul quale il lettore deve toccare i denti dopo la squisitezza delle parole: da Falena: “Umano://Sono ore che sbatti, Farfallone/attorno a questa luna-lampadina./Avrai la testa ormai come un pallone/E prendi fiato o, meglio… un’aspirina!//Falena:// Aspirina? Cos’è questa ciofeca?/Grazie, meglio di no, son già in ambasce./È questa la mia luna, anche se acceca./Non si può scegliere dove si nasce.”

Dunque, collocherei il baricentro poetico del bel libro di Annalisa Macchia nella sua architettura: proprio poesia d’architettura la definirei, se dovessi cedere a una definizione. Perché ogni senso risulta dalle spinte e controspinte fra le parti: fra le sillabe, fra i versi, fra le strofe, fra i titoli e i sottotitoli, fra le immagini evocate e i concetti sottolineati; risulta dalla distribuzione dei carichi di registro, di tono, di lessico, dalle modanature metaforiche, dalla scelta dei materiali di lingua e di metro, dalla collocazione dei sostegni della narrazione e del dialogo; risulta dal numero dei testi e dalle suddivisioni di ognuno di essi: tre e multipli di tre, secondo l’archetipo; con in più l’ultimo testo rivolto al Coronavirus e al presente, come un’introduzione posta, ancora una volta all’incontrario, alla fine. Ogni elemento dell’architettura poetica ha la sua collocazione e la sua funzione precise, perché insieme a tutti gli altri deve rendere quell’equilibrio di senso che ha, come nell’arco, la sua chiave di volta nel concio con su incisa la morale: da Zecca: “Umano://Quando il borsellino langue/il rimedio è nella Zecca./Sputasoldi o Succhiasangue?/Fortunato chi ci azzecca!//Zecca:// Io nei soldi non ci sguazzo/e non me ne importa niente/ma nel sangue, che sollazzo!/Succhia soldi la tua gente…?”

 

Una nota di lettura di Lucia Visconti:

L’ultimo lavoro poetico di Annalisa Macchia, scrittrice di particolare talento creativo, come abbiamo potuto apprezzare in Poeti in Quarantena, sotto la forma divertente, arguta della Disturna toscana (dalla Prefazione di Franco Manescalchi, pag. 5) sintonizza “i rivolgimenti storici che in questi giorni coinvolgono l’umanità dove i diversi sono criminalizzati” (Franco Manescalchi, Prefazione, pag. 6). Infatti in un botta e risposta fra l’uomo e gli animali considerati da lui bestiacce, la poeta offre loro pari possibilità. (Franco Manescalchi, Prefazione, pag.7) .”Tutta questione di ottica… Per tante “bestiacce” gli esseri ripugnanti siamo noi, esseri umani, e, riconosciamolo, in molti casi sarebbe difficile dar loro torto” (Introduzione della Macchia, pag10).

L’ispirazione trae spunto dal Bestiaire o Cortège d’Orphée di Guillaume Apollinaire, che vide la luce in pieno clima simbolista e modernista. Certo, basta tanto poco alla nostra, per far scattare nuovi fili del pensiero nei vari lavori! Non si tratta dunque di scritti per intrattenere in allegra compagnia, ma di vera poesia che ci pone di fronte a pareri diversi che acquistano valore a seconda da quale angolatura li si osserva. Bella lezione di civiltà! Se prevale l’ascolto dell’altro, cade il razzismo, dando origine ad un’umanità rigenerata dall’accoglienza… tutto ciò in fini pennellate di poesia.

Nei diversi testi troviamo anche accenti toccanti. A pag. 31 così leggiamo nella descrizione del topo:

[…] Classificato: animale nocivo. 

Consigliato: farti fuori […]

Ma continua:

[…] Nelle baracche

dei campi di sterminio

un bambino

il pugno chiuso su preziose briciole

aspettava davanti alla tua tana

la mano pronta

a carezzare un po’ di pelo grigio

a stringere amicizia

con un essere vivo.

 

Per una scorsa d’insieme, desidero riportare altri versi:

 

Falena

Lo so cosa cerchi.

sbatacchi da tempo attorno

a questa falsa luna

troppo vicina, spaventoso

astro in miniatura. […]

Umano

Sono ore che sbatti farfallone

Attorno a questa luna-lampadina.

Avrai la testa ormai come un pallone

E prendi fiato o, meglio, un’aspirina!

Falena

Aspirina? Cos’è questa ciofeca?

Grazie, meglio  di no, son già in ambasce.
E’ questa la mia luna, anche se acceca.

Non si può scegliere dove si  nasce.

Da notare gli endecasillabi ed altre forme metriche, altra peculiarità di Annalisa Macchia, maestra eccellente nelle strutture metriche, che hanno dato corpo anche a “A scuola di poesia” e a “Come si cucina un sonetto”.

 

Una lettura critica di Fabio Dainotti

Nel Medio Evo si aveva una visione allegorica della realtà. Da tale allegorismo discendevano quei tipici testi medievali, tra cui i lapidari, per cui una tal pietra aveva una tal virtù; gli erbari, per cui una certa pianta aveva particolari proprietà curative magari solo per l’analogia e la somiglianza della foglia ad un organo, ad esempio al cuore; e i bestiari. Con una particolarità: che se una bestia era presente in una delle Auctoritates, per ciò stesso si assumeva la sua esistenza, con una perfetta reversibilità libro-natura. È il caso dell’ircocervo, animale favoloso di cui si parla nella Bibbia, che vien descritto minuziosamente nel Fisiologo.

Anche Dante subisce l’influenza dei bestiari medievali, ad esempio nel XXVII dell’Inferno, soffermandosi sugli stemmi araldici che recano spesso figure di animali, “una mappa di città con i loro tiranni assomigliati alle bestie feroci dei loro stemmi” (A. M. Chiavacci Leonardi). E poi nel parlar corrente il bestiario allude alla fauna variopinta degli animali a due gambe che si incontrano a volte sui marciapiedi delle nostre brughiere metropolitane.

Annalisa Macchia nel suo libro di poesie Il Bestiario delle bestiacce (Pagine, 2020), ci offre una versione rinnovata e rivisitata del sottogenere, prendendo le mosse, anzi “ispirazione”, come ci informa l’autrice nella Premessa, dal Bestiaire o Cortège di Guillaume Apollinaire. Per poi concludere: «Tutta questione di ottica […]. Per tante “bestiacce” ripugnanti siamo noi, gli esseri umani e, riconosciamolo, in molti casi sarebbe difficile dar loro torto».

Nella dotta postfazione PlinioPerilli ci offre poi un’ampia panoramica degli antecedenti letterari, da Apuleio a Kafka.

Quindi la poetessa si cimenta in una prova dove ha luogo il sorriso o “riso”, giusta l’indicazione leopardiana: “Chi ha il coraggio di ridere, è padrone del mondo”. Ecco, la Nostra si mostra padrona del mondo in quanto lo conosce e mostra di conoscere vichianamente il mondo: non solo di conoscenza libresca si tratta, ma pratica; “mondo” inteso anche nel senso mondano del termine, con le sue debolezze e le sue virtù. A volte l’io castiga i mores, come osserva ancora Perilli, con la frusta epigrammatica, a volte ostenta quella, vorrei quasi dire, bonomia (ma forse è un portato della felicità creativa) di chi tutto comprende e quindi, utilizzando l’umorismo, la sorridente ironia, ma soprattutto il sarcasmo, ci presenta un variegato catalogo di animali e di bestiacce, cioè a dire gli umani, o gli “ominidi” (ancora Perilli). Perché in questo sta la novità apportata da Macchia: che nella struttura tripartita dello spazio dedicato a ogni singolo animale, lo sguardo è quello dell’io, e poi a seguire quello della bestia e dell’umano. Questa pluralità prospettica, questo continuo variare dei puntidi vista, inserisce un elemento straniante, molto proficuo come scandaglio conoscitivo, perché mina le certezze e le comode acquisizioni, mettendoci davanti allo specchio e interrogandoci sui loci communes, sui limiti del senso comune. La voce narrante è inoltre mediata attraverso i due personaggi, con lo sfoggio della citazione dotta e persino a volte del falsetto.

Vengono alla mente i raccontini di F. Brown, della cui lezione certo non è ignara la scrittrice (una produzione colta, la sua, con riferimenti o allusioni ad autori, come ad es. Kafka), con l’aprosdòketon, la comparsa repentina nel discorso di un elemento inaspettato con effetto di sorpresa, dovuto al rovesciamento improvviso del punto di vista.

La raccolta si apre con il Geco, e già fin dalle soglie si comprende che è l’animale che deve guardarsi dalla bestia-uomo. Scorrendo le pagine del godibilissimo libriccino (diminutivo-vezzeggiativo per significare la bellezza esterna dell’oggetto-libro, inserito nella collana “Le monadi” a cura di Plinio Perilli e impreziosito dalla stupenda copertina, che riporta una foto di Mob-budù, “l’ iguana familiare” (molto attraente e colorata, ossimorica rispetto al titolo), si nota che il “divertissement”-così definito da Franco Manescalchi, che si sofferma anche sull’arguzia, nella Introduzione – si compiace dell’uso insistito dell’omofonia, e dell’accostamento di parole dal significante uguale ma diverse nel significato:“zecca”, animale / “Zecca” di stato (“quando il borsellino langue / il rimedio è nella Zecca”). Si diceva di sorriso indulgente quasi; atteggiamento che sembra trasferirsi a questi animali parlanti, che hanno sentimenti umani, come la nostalgia in Camaleonte e che dicono di una loro paventata, terribile fine con una Lightness incredibile, come nella bellissima risposta dell’Ape (in questo botta e risposta uomo-animale, l’allocuzione della bestia è in corsivo, per distinguerla opportunamente anche dal punto di vista tipografico), uno dei vertici poetici della silloge: “Ronzerei beatamente / però l’essere umano / mi venga un accidente / se fa ciao con la mano”. Un altro esito espressivo notevole è rappresentato dalla quartina finale della tripartizione dedicata alla Chiocciola, che esibisce movenze particolarmente aggraziate, in direzione dell’oralità: “Amo il motto che fa ‘festina lente’. / Certo che so tradurre, malfidata: / ‘Affrettati- se devi! -lentamente’. / Sarò lenta, ma non illetterata”. Un altro pregio dei testi in esame è la prodigiosa capacità della ritmica di adeguarsi mimeticamente al muoversi o all’atteggiarsi della bestiola di turno, come nel caso del Lombrico, “minuscolo danzatore acrobatico”, e armato solo di eleganza, che si presenta indifeso davanti al vario spettacolo della crudeltà degli umani, che ricorda l’Albatros di Baudelaire. La poetessa dà fondo alla propria bravura linguistica con parole coniate, con giochi e scavi sulla lingua sorprendenti, come nella poesia che prende il titolo dalla Tartaruga (ogni componimento si intitola da un animale): “Se mi chiamano Testuggine / quasi quasi non mi volto / hai una bella “testarduggine”.Dove forse (oltre al tema sotteso del nome),  la mira è alla pretenziosità da précieuses ridicules e agli ansimi del poeta alle prese con la rima (una metafora della poesia è anche la meraviglia argentata tessuta alacremente dal Ragno e regalata a chi non può o non vuole apprezzarla, un pubblico simbolizzato dal  “muro scorticato”, da “una sedia sbilenca”, da “una finestra / da troppo tempo chiusa”; e anche metaforiche son le onde sonore, intraducibili, come la poesia, lanciate da cicale canore, che il loro canto, migliore di quello dei cantanti d’oggidì, sembra dirci la poetessa, lanciano al sole; e canto fa rima con pianto. (“E ne conosco alcuni che son puri singhiozzi”, cantava un poeta romantico francese). Ma si veda anche “Galantopo”, in Topo, dove la immagine straziante e non facilmente dimenticabile del bimbo che “nei campi di sterminio” accarezza (anzi spera di poterlo fare) “il pelo grigio” di un roditore, aspettando “davanti alla sua tana” per regalargli “preziose briciole” strette nel piccolo “pugno”, fa pensare per converso al pregiudizio di tipo culturale di noi occidentali (in India non è così). In Falena si nota un metamorfismo (che riguarda anche la composizione che si è conquistata la gloria di occupare la 4° di copertina: “Se vedi un pipistrello gira al largo…”; e il topo-uccello fa fiorire tante false credenze). Dove il destino, il “costume” della farfalla è paragonabile leopardianamente a quello di noi uomini, come suggerisce la scelta del verbo “ci assomigli”, dato che il viaggio della vita finisce invariabilmente con la morte, in un “abisso orrido”, o in una “notte” che inesorabile “cala” per tutti. Questo sembra essere l’insegnamento, quello che una volta si chiamava il messaggio, di questi versi. Nel Rospo, c’è una sostanziale identità nella goffaggine dei movimenti tra l’uomo e l’animale, nel loro “goffo saltellare”. Ma forse una differenza ci è dato cogliere in filigrana dalla qualifica di “giusto” che spetta al rospo, il quale può dormire “il sonno del giusto”; nella risposta di questo “contrasto” tra animale e uomo, del primo godibile è il fulmen in clausula: “Sono un Rospo da sballo, sissignori. / Se quello m’ha baciato per scommessa / vuol dire solo ch’era già di fuori / ma quel ch’è peggio è che non l’ha più smessa”. Altro finale epigrammatico in Gufo e una battuta   chiude anche il Calabrone, di cui si celebra allusivamente il “volo”, sempre con l’ausilio delle parole-rima  (a proposito di rima è frequente la rima baciata). Molto divertente la boutade che riguarda il mal di piedi della scolopendra, un incrocio tra millepiedi e scorpione.

Sulla pigrizia mentale che si adagia sui modi dire sembra giocata la risposta consenziente, non in forma di tenzone quindi, del passerotto. Il coraggio non è prerogativa del leone: cioè di qualcun altro.

Un futuro distopico, di un mondo in cui solo un “ributtante esserino” sarà in grado di vedere spuntare come per magia “un rametto stento” dal “fremito leggero di una zolla”, “in un deserto di radioattività” è quello che appare in Scarafaggio. “Piacer figlio d’affanno”: ed ecco il Creatore, in questo testo sapienziale che mette in scena il punto di vista di Dio, nel mettere al mondo le Zanzare: “L’uomo, deve aver pensato, / non saprà certo apprezzare / questo Eden di pace / se non gli sarà mai noto / del benessere il contrario”.

Allargamento del poetabile e insieme valorizzazione della corporeità sembrano presiedere alla composizione dello Scarabeo Stercorario.

Colorismo troviamo nel Calabrone “giallo e nero” e una gustosa scenetta tra dentro e fuori, con le donne spaventate che, “chiusa ogni porta e finestra”, corrono a spiare “dal vetro” il suo “volo” (anche questa una citazione sottintesa). Una stilettata, questa volta ai medici e agli scienziati, troviamo nel Virus del raffreddore e nel Coronavirus, che chiudono degnamente il libro.