Martedi 18 febbraio  2020 alle ore 17.00 presso la Società delle Belle Arti – Circolo degli  Artisti ‘Casa di Dante’ è stato presentato il volume di racconti di Carlo Lapucci La biblioteca di Tarmakòden.

Dopo i saluti da parte di Franco Margari, presidente dell’associazione, Giuseppe Baldassarre ha presentato sinteticamente l’autore elencando le principali opere di linguistica, antropologia, saggistica, poesia e prosa. E’ intervenuto brevemente Massimo Avuri, che ha curato l’edizione del volume ed ha scritto l’interessante prefazione.
 Poi Angelo  Australi ha inquadrato quest’opera nel genere dell racconto e ne ha definito le caratteristiche di scrittura..
Annalisa Macchia ha presentato in modo più analitico il volume e ha invitato Carlo Lapucci a chiarire aspetti del suo pensiero e del modo di scrivere.
Sono infine intervenuti  alcuni del pubblico tra cui il critico letterario Stefano Lanuzza, che ha chiesto all’autore quali siano stati i suoi modelli  nello scrivere racconti. Un giovane studente del corso di Scrittura creativa tenuto da Massimo Avuri ha chiesto cosa dovrebbe fare un giovane che voglia diventare scrittore: leggere, esercitarsi e vivere, ha risposto Lapucci.. E’ infine intervenuta Chiara Lapucci, la figlia, a cui il volume è dedicato.

(le foto sono di Giancarlo Bianchi)

 

 

   

     

Il testo dell’intervento critico di Angelo Australi:

“Ci sono due linee principali nelle quali sui può dire si sia sviluppato il racconto, almeno nella tradizione della letteratura moderna e contemporanea, e ognuna di queste risponde ad un diverso legame tra il linguaggio scritto e l’enunciazione del messaggio poetico-letterario racchiuso nella trama.

Due linee non molto distanti come punti di partenza, se non di arrivo, visto e considerato che la storia da svilupparsi in un racconto vive necessariamente di trame esili. E questo al di là delle tematiche trattate.

Linee che in realtà poi ritroviamo anche nella tradizione del romanzo.

– Il narratore intuitivo che scopre la storia, la trama, man mano che la scrive;

– Lo scrittore che tende a celare nei riempimenti descrittivi il messaggio originario da cui muove il tutto.

Nella prima linea rientrano quelli autori che scrivendo sembrano meravigliarsi delle scoperte che fanno, avventurandosi nella sequenza delle frasi concentrate in una trama che sviluppa ciò che accade nello specifico momento in cui si svolge la narrazione. Possono partire anche da una sola frase nella costruzione del racconto, da un’idea, ma poi è come se il tono della scrittura gli prendesse la mano, il linguaggio è liberatorio, diventa scoperta. Ci collocherei alcuni scrittori, tanto per dare un’idea: Babel, Cechov, Mark Twain, Hemingway, Carver, Fenoglio, Rolando Viani, Maupassant, Federico Tozzi, Verga. Scrittori che sviluppano il tono del racconto in un ritmo cadenzato, conciso, dove tutto ciò che sta dietro la linearità della trama aumenta e si gonfia solo grazie alla capacità immaginativa del lettore. Per questi scrittori scrivere è come scoprire il racconto insieme a chi legge.

Nella seconda linea metterei tutti quelli scrittori più orientati a sviluppare un intreccio pensato, costruito, di cui sono sempre consapevolmente convinti nel tracciare la trama. Qui il racconto si sviluppa, respira in modo articolato, dà fiato alla descrizione degli ambienti, dei personaggi, dispone i loro pensieri intimi in una precisa dislocazione ritmica tra fuori e dentro, tra lontano e vicino. Alla fine la trama è un pretesto, perché la storia si espande avventurosamente in un linguaggio che ha schemi volutamente creati per catturare l’attenzione del lettore. E qui collocherei, Poe certamente, ma anche Hawathorne, Melville, Dostoevskij, Gogol, Conrad, Gadda, Nabokov, Pirandello, Landolfi.

Nella prima linea lo scrittore fa il suo sforzo maggiore a cercare intuitivamente il punto di rivelazione poetica racchiuso nella storia, e in questo caso è portato a togliere ogni frase che possa risultare una distrazione dal tema che guida la narrazione.

Nella seconda linea si procede invece in senso inverso, è come lavorare con la scrittura a descrivere tutto quello che è già stato accomodato precedentemente su di una tavola apparecchiata, pronta per il pranzo, quando ancora gli ospiti non si sono seduti nei posti a loro assegnati. Qui sembra proprio la predisposizione di un gioco, dove l’immaginazione cerca di espandersi in varie direzioni, prima che questo abbia inizio.

Nel primo caso l’insieme converge verso un punto epifanico da scoprire strada facendo.

Nel secondo invece la scrittura si sviluppa in un ventaglio di dettagli che tendono a ricostruire dei piani paralleli alla realtà, dove il linguaggio ha così modo di espandersi.

Carlo Lapucci, con la raccolta di racconti “La biblioteca di Tormakòden”, a mio parere rientra in questa seconda linea.

Nelle sue storie, suddivise per tematiche in terne di racconti, riposa un tono evocativo, la trama nasce da una semplice situazione, da un atto, un gesto, un momento dal quale il linguaggio finisce per dilatarsi e sostituire la realtà con una situazione immaginata da varie angolature, e il lessico si articola fino a costruire un prisma, ricco di riflessi di luce e di angolature costruite consapevolmente, per avere un effetto di moltiplicazione.

C’è una sorta di mania dell’immobilità in questo espandersi, rivendicata orgogliosamente, sulla quale si è stratificata la polvere dei pensieri che riecheggiano nella storia narrata. Citerei una frase per confermare questa chiave di lettura dei racconti di Carlo Lapucci: … si entra nel mistero dei buchi neri come in cantina… là, insomma, l’universo è di casa. (Ipotesi dell’universo)

Quella di Carlo Lapucci è una scrittura narrativa che aggiunge, che trasporta la trama verso un punto in cui è obbligatorio perdersi in una realtà senza più connotati. La storia si espande in un positivo susseguirsi di particolari che confermano quanto siano importanti questi luccichii per vivere un’avventura. Scrittura come idea di avventura? Poi ci tornerò su questo punto interrogativo dell’avventura.

Con le dovute differenziazioni, certo, ma il tono dell’accrescere mi fa pensare a certi racconti di Tommaso Landolfi, oltre ai tanti scrittori accennati nella prefazione di Massimo Avuri, dove si parla di Gadda e di Buzzati, per gli italiani. Landolfi, perché anche qui mi sembra che possa valere il suo principio di ricerca basato sull’idea che la letteratura comincia là dove finisce la letteratura. Vi leggerei questa breve paginetta a pag. 106, 107, tratta dal racconto IPOTESI DELL’UNIVERSO, che ho molto apprezzato… Chi parla è Artemio Zazzeri, bislacco pseudoscienziato che si ostina a divulgare una stravagante teoria “su natura, struttura e origine dell’universo”.

LETTURA: “ … Queste cose lo Zazzeri andò a predicare a un simposio per l’inaugurazione del telescopio didattico di Bagnacavallo insinuandosi tra i relatori con il suo consueto sistema.

  • Amici carissimi, hello boys, sembrerà ormai chiaro anche a voi che il nostro vecchio e superato concetto d’universo va riversato in quello più moderno e più vasto di poliverso, vale a dire che il sistema universale tende alla dispersione gravitazionale e di conseguenza alla levitazione poliversonica, come tutti ben comprendete. Bisogna perciò stasera con un salto vitale balzare a piè pari gettandosi oltre e poi oltre ogni orizzonte: oltre il telescopio, oltre il microscopio e oltre lo stetoscopio – poi preso dall’entusiasmo per un vezzo retorico continuò – come pure lo stroboscopio e il giroscopio e il periscopio. In quell’ordine infinito si vedono le stesse cose che si possono osservare in una nevicata vista in anamorfosi, nella sezione d’una melanzana o d’un salame … big aubergine or sausage

Dal fondo della sala venne qualche soffocato ruggito e altri rumori di dissenso ai quali Artemio non fece caso e tirò avanti:

  • Voglio dirvi di più, amici: immersi nel fluido lenticolare e speculare a noi appare uno spazio di anni luce il semplice riflesso di due specchi messi uno di fronte all’altro i quali dove sprofondano se non in se stessi, in quale spazio se non in quello da essi creato, dove arrivano se non nel punto dove si trovano? Le stelle che sembrano a distanze vertiginose non sono che proiezioni luminose dentro a questo guscio di diamante disseminato di cristalli di rocca, pietre, laghi, fuochi, lave, ghiacciai superficiali e sotterranei di questo cosiddetto pianeta che ci portiamo tutto dentro. Sono tutte proiezioni, solo proiezioni … projections, only projections… Si possono studiare benissimo le nebulose e le galassie facendo spedizioni speleologiche come introspezioni dell’animo… fare interminabili viaggi spaziali in caverne e spelonche sotterranee, con risparmio di danaro e di tempo. L’universo non è che un salame farcito di frammenti di specchi rotti, credetemi, cristalli, biglie, minerali rilucenti, ambre, cocci in mezzo a materia opaca e con due grandi specchi parabolici al posto dei culacci. E questa immagine sublime…”

Ma anche racconti come Viaggio nell’orologio e Diamond Jack, forse tra i più belli in assoluto della raccolta, mi fanno pensare a Landolfi. Quella di Lapucci è una lingua che si espande fluidamente per immagini e similitudini nel suo seguire la trama. Nelle similitudini c’è un andare e un tornare dal reale, e questo aspetto crea quell’ironia dissacrante di una cultura popolare che a questo punto si fonde con un concetto letterario colto. I tanti proverbi, e i modi di dire popolari inseriti a conferma di alcuni concetti, ne sono un esempio. “… non avrebbe dato un cristo a baciare a un moribondo

La scrittura di Carlo Lapucci raggiunge una fluidità dal ritmo uniforme e melodico, per esempio nel racconto “Viaggio nell’orologio”, mentre in “Diamond Jack” ci sono intrecci temporali di un bambino reale, a letto malato, con la nonna in casa, che contemporaneamente ricorda, immaginandoli una seconda volta, le avventure da fare con i suoi eroi del far west. Il ricordo di quei giochi rivisitati dal bambino è però nella mente di un adulto che ritorna a quell’età felice dove ogni pretesto reale è occasione di dilatazione immaginativa che parte dai fumetti. E qui è davvero da evidenziare la sua singolare qualità inventiva, dove il piacere della creazione letteraria scorre in un linguaggio al tempo stesso fantastico e umoristico.

Vorrei riprendere quell’accenno all’avventura del quale ho parlato in precedenza. La scrittura di Carlo Lapucci è espansiva non tanto come quella di Gadda, nella quale l’aggiunta su aggiunta è tendente a nascondere il nulla di cui è fatto l’essere umano, ma nella maniera, direi proprio avventurosa, di come si possa sentire un bambino nel momento in cui si predispone a costruire il contesto di un gioco che poi dovrà fare.

Ne accenno in modo intuitivo, perché non ho avuto modo di approfondire quest’ipotesi, qualcosa che mi è venuto in mente leggendo proprio il racconto che dà titolo alla racconta: “La biblioteca di Tormakòden”, ho notato nei nomi propri un elemento che è frutto di una fantasia ludica, un po’ come quando da bambini ci mettiamo ad inventare dei giochi per passare il tempo, e ogni personaggio è frutto di invenzione, a cominciare dal nome e dal ruolo che gli assegniamo in quel gioco.

Prepararsi a giocare per un bambino è un momento importantissimo, è solo lì che il tempo può dilatarsi all’infinito, proprio partendo da qualcosa di concreto e di reale come può esserlo un periodo storico e dai nomi dei personaggi che poi diventeranno reali: Akapulco I, Farnetico IV, detto l’idiota, erede di Tormakònen. E poi il professor Tipoganzi… Ma ce ne sono un’infinità di nomi così nei racconti, che sembrano nascere proprio pensando al gioco che il bambino – e in questo caso lo scrittore Carlo Lapucci – stravolgendo la realtà con forza ironica immagina e si prepara a fare. Il capitano Serpieri Delgorgo del racconto Il naufragio dell’Abelanda, così come, sempre dallo stesso racconto: Bifulcherio d’Anguria, consigliere di Fulcherio d’Ascalona, o Kiappanivio d’Anazardo.

Il gioco immaginato da un bambino può dilatarsi un’intera giornata, ma mi sento di dire che forse è anche quello che accade quando ci mettiamo a scrivere. Proprio lì, in quel preciso momento creativo, è bello aggiungere ogni dettaglio, gesti, colori, scorci, personaggi, mostri, perché sappiamo benissimo che il gioco di per sé, quando lo faremo, durerà un tempo estremamente limitato che si porterà dietro quasi certamente qualche deludente finale che, nella nostra immaginazione, non abbiamo neppur minimamente previsto.

L’avventura insomma, sta nella preparazione del gioco, e perché il racconto sia assimilato a quel momento, è necessario completare il cerchio mentale. Questo fa Carlo Lapucci con la sua scrittura: fa cominciare la letteratura là dove essa stessa finisce…”

…. e di  Annalisa  Macchia

Carlo Lapucci, autore di questa bella raccolta di racconti, è così descritto nella nota introduttiva, a cura di Massimo Avuri: “Linguista, lessicografo, conoscitore di modi di dire e di proverbi, (massimo) esperto di folclore e tradizioni popolari, saggista, critico letterario, traduttore, biografo, aforista, parodista, commediografo, poeta, romanziere […] non c’è territorio, si può ben dire, nel campo delle lettere e delle umanità, che Carlo Lapucci non abbia attraversato nel corso della sua lunga e significativa carriera”. Precisazione necessaria per permettere al lettore di inquadrare nella giusta luce quest’opera, tutta da scoprire e gustare. La biblioteca di Tarmakòden – il titolo è tratto da un racconto eponimo – raccoglie una minima parte della produzione di narrativa breve di Carlo Lapucci […]. I 24 racconti, scritti nell’arco di circa cinquanta anni, dal 1971 al 2008, da lui stesso selezionati, esplorano generi letterari diversi (fantastici, umoristici, filosofici…) e sono organizzati per terne, che li raggruppano per tematiche Il non comune spirito di osservazione dell’autore, unito alla fervida immaginazione, dà vita a scenari indimenticabili, dove si muovono personaggi sapientemente filtrati dalla lente impietosa e spesso canzonatoria dell’ironia, ma profondamente veri, scaturiti da un vissuto quotidiano, reale, in cui spesso possiamo riconoscere noi stessi. Sono personaggi frequentemente messi alla berlina, ma con simpatia, anzi direi con affetto e con grande comprensione per le debolezze e le fragilità di cui sono simbolicamente portatori, considerati con l’occhio di chi critica ma in fondo vuole bene al mondo e se critica è perché lo vorrebbe migliore. […] Oltre al tocco ironico, burlesco, fantastico, non troppo velatamente polemico (da toscano doc) nei confronti della società delineata […], da sottolineare, la palazzeschiana inclinazione a divertirsi nel descriverla. […] C’è tuttavia un fil rouge che li lega conferendo loro una sensazione di unitarietà. Si percepiscono alternativamente smarrimenti, surreali costruzioni oniriche e fantastiche, poetica leggerezza, irresistibile umorismo, satira e altro ancora; nel sottofondo tematiche ricorrenti sono il mistero del tempo e la ricerca di un’identità. Si resta soprattutto attratti da una narrazione che, pur evidenziando un’alternanza di toni narrativi, attribuisce alla raccolta una lettura piacevolmente coerente. La mano e la visione del mondo restano immutate. Divertire il lettore, tenere ben lontano lo spettro della monotonia, credo sia un gran segreto – ben noto a Lapucci – per catturare la sua attenzione e condurlo alle riflessioni desiderate. […]. È singolare come molti testi narrativi di Lapucci racchiudano felici inclusioni relative ai suoi interessi culturali, alle sue passioni letterarie. […] Sono spontanee manifestazioni che attestano non solo la sua vasta cultura e sensibilità, mai esibite eppure evidenti nell’abile manipolazione delle parole e dei significati, ma anche la sua grande disposizione a capire ed accogliere una varia umanità, strana, incomprensibile, biasimevole, ma sempre colta nella bellezza della sua semplicità e verità.