Mario Sodi, Lasciati i bei sonagli, Edizioni Helicon, Arezzo 2018

Nuova importante raccolta di poesie di Mario Sodi. Volume vincitore del Premio Casentino.
Presentato da Pianeta Poesia presso la Società delle Belle Arti – Circolo degli Artisti ‘Casa di Dante’ a Firenze il 19 novembre 2019

 

 

Recensione di Annalisa Macchia

La poesia di Mario Sodi, mai disgiunta da una concezione sacra dell’esistenza, dovuta alla fede profonda del suo autore, è sempre stata costantemente e umilmente al passo con la parola di Dio. I riferimenti ai testi sacri sono assai frequenti nei suoi testi e anche il titolo di questo suo ultimo libro, Lasciati i bei sonagli, suggerisce immagini scaturite dalla Bibbia, in lui ben radicate.          La Bibbia descrive molti avvenimenti accompagnati dalla musica. In occasione di vittorie si festeggiava danzando e cantando al suono gioioso dei tamburelli, strumenti antichissimi ornati di tintinnanti sonagli, per inneggiare a gloriose imprese, come quella di Davide, oppure si plasmavano i sonagli in oro per arricchire le sacre e splendide vesti dei sommi sacerdoti, come quella di Aronne, fratello di Mosè. Biblicamente parlando il termine sonagli evoca gioie al contempo festose e sacre. Niente di più naturale per chi ha dimestichezza, come il nostro autore, con il linguaggio biblico, ricollegarlo a un periodo felice della propria esistenza. A lungo hanno tintinnato “i bei sonagli” nella vita di Mario, accanto alla sua bella famiglia, con la moglie, i figli, i nipoti… purtroppo arrivano anche i momenti del silenzio, del dolore, del dubbio, e il suono gioioso diventa soltanto un ricordo, inesorabilmente “lasciato” alle spalle. Con gli anni, le tristezze che avanzano e insospettabili dolori che arrivano feroci e improvvisi sconvolgendo ogni precedente equilibrio, si entra smarriti in una nuova fase della vita. Inevitabile, allora, sottoporre i valori cui si è sempre fatto riferimento a una sofferta verifica, in cerca di appigli sicuri: «Nel segreto / lasciati i bei sonagli / la mia fame Ti cerca» (Ritorno, p. 32).                                                            Leggere questa raccolta significa immergersi nel variegato e toccante dialogo che l’autore intesse di volta in volta con se stesso, con i suoi cari, con ciò che gli sta intorno, ma soprattutto con quella Voce, da sempre sua guida, che chiede d’amare ogni smarrimento, voce onnipresente nel sottofondo di tutta la raccolta, anche quando sembra tacere, e che conferisce ai testi il colore e il calore di un’ininterrotta preghiera.                    Il libro, preceduto da un’introduzione di Lia Bronzi e seguito da una postfazione di Enrico Taddei, è costituito da una raccolta di poesie suddivise in tre sezioni: Lasciati i bei sonagli…, …la mia fame ti cerca e la meno corposa, ma non meno pregnante Eulogie.

Già fin dalla prima lirica, Albero, si può percepire il motore segreto che muove la poesia di Mario Sodi: «Entrare in te, sostare in me, ascoltare / la memoria del cuore, riconoscere / nel germe iniziale / di due radici, il diverso intreccio / di due tronchi congiunti, il variare / di verdi strade ed il mio intrigo / di sterpi e di germogli / nel contorto / annodarsi del tempo». Con il tocco mite e la delicatezza che gli sono propri, ma anche con l’amarezza e la consapevolezza di quanto nera possa essere la notte della vita, l’autore, totalmente immergendosi e immedesimandosi in quel “corpo verticale”, lascia presagire il nuovo turbamento di fronte ai contorti nodi di un tempo drammaticamente indifferente a ogni emozione umana. La visione panica, quel realismo panico e cosmico sottolineato da Taddei nella postfazione citando Pascal «il se regarde comme égaré dans ce canton détourné de la nature […]Qu’est-ce qu’un homme dans l’infini ?» affiora con grande frequenza in questa poesia e ci trasmette il sapore prezioso della vita quotidiana, sempre  ammantata di sacro, innalzata nella potenza di Dio, anche se sottoposta alla corruzione del tempo. Cosa ci resta quando tutto sembra allontanarsi? «Mi rimane Lui solo: / il Crocifisso infame/benedetto / tormento e mio Signore, padre e madre e donna mia d’amore» (Se è scritto, p. 24). Sembra quasi una bestemmia questo aggettivo “infame”, seppure seguito e mitigato da “benedetto”, accostato al simbolo della Croce; un accorato ossimoro indispensabile per esprimere l’amara constatazione di quanto il dolore, immancabilmente legato alla natura umana, possa sconvolgere, disorientare. Si deve attraversare un deserto buio per carpire l’Essenza, per capire il difficile, estremo viaggio d’Amore suggerito dall’immagine della croce, per trovare “le sottili fibre che congiungono il corpo e l’anima”.

Prosegue la lunga preghiera di Mario Sodi, nutrita dei ricordi felici dell’infanzia e confortata dalle giovani vite che ancora fioriscono nella sua famiglia. Ma gioie e sofferenze sono intrecciate in nodi indissolubili, come la morte e la vita, quasi beffardamente «Non sa il corpo. Pur grave / ha voglia di salite; e teme / l’invito a sfarsi nel suo nulla. // Così la vita misteriosa/mente  / muore vivendo» (Ritornare acqua, p. 44).                                È questo un percorso, un viaggio arduo e tormentato. Un Nulla inconoscibile incombe ed è impossibile comprenderne il perché: «Troppo vasto è il tuo mare: […] Forse da sempre ti conosco / e non mi basti mai» (Perché, p. 56). In questo tempo nemico/amico si può però cogliere una voce capace di rendere più lieve il viaggio: «So così poco di Dio / e del suo folle amore, / ma ho un cuore che scommette di non morire // Ed ecco una voce / che non è della terra» (Ed ecco una voce, p. 63).     Nella mutilazione lasciata dalla morte delle persone amate, come la prematura e tragica scomparsa di sua figlia Laura, permane la penosa constatazione che di dolore non si muore, di dolore si vive. Sono commoventi questi ultimi testi particolarmente a lei dedicati. Incapace di immaginare sua figlia senza vita, l’autore si rifugia in ricordi passati «mentre lo spirito / ostinatamente  / arranca sulle scale dell’Eterno».

Un liristura critica da Martina Lellio diffuso permea tutta l’opera, ogni lirica trasuda emozioni ed è offerta al lettore con l’anima nuda di chi cerca verità permettendogli di riconoscersi nei testi, di condividere umanamente le prove, la fame insaziabile di vero e di eterno. Al di là di ogni possibile collocamento di questa poetica, apparentemente sulla scia di un certo filone novecentesco per le tematiche trattate e anche per la comune origine geografica (Siena e Firenze), che potrebbero far pensare a Mario Luzi, si deve riconoscere a Mario Sodi una personale fisionomia, caratterizzata da una ricerca onesta, sapiente della parola poetica e della Parola evangelica, condotta nell’arco degli anni con rara umiltà e coerenza

 

Una lettura critica di Martina Lelli

È nella sintesi tra il dolore soffocato e la potenza terrena e divina della natura che Mario Sodi crea il fulcro della propria poesia nella silloge “Lasciati i bei sonagli”. L’intenso lirismo del poeta offre un minuzioso viaggio alla ricerca dell’essenza della condizione umana che, nell’universalità delle emozioni, unisce il percorso cognitivo alla sfera emotiva: è proprio qui che l’uomo si realizza nella sua totalità ed è in simbiosi con il creato. La natura, infatti, è il mezzo e il varco attraverso cui l’autore concretizza l’importanza della vita, intesa come dono, nonostante le difficoltà del quotidiano: la figura dell’albero, in particolare, ricorda l’analogia tra il processo della crescita della psiche e della pianta, riconoscendo “nel germe l’origine iniziale/ di due radici, il diverso intreccio/ di due tronchi congiunti” fino a raggiungere “l’intrigo/ di sterpi e di germogli nel contorto/ annodarsi nel tempo” (“Albero”). Mario Sodi, inoltre, pone l’accento nella sinergia tra uomo e natura, ricordando, nella lirica “Mandorlo”, quanto le mancanze e le recisioni della vita non siano sufficienti per impedirci di pensare alla bellezza: nonostante “il tronco dell’albero […] mozzato”, “Il mandorlo è in noi per sempre. / Chi ha mutilato il legno/ non sapeva/ che è impossibile/ uccidere il Fiore”.
La ciclicità della natura è analizzata dal poeta anche dal punto di vista dell’infanzia e della morte: entrambe manifestano la volontà di continuare e di perpetuarsi. Il tempo resta quasi un’incognita che l’autore, nella lirica “Ed ecco una voce”, asseconda scrivendo: “Non so il tempo/ nemico/amico che sale e consuma […] ma ho un cuore che scommette/ di non morire”. È proprio qui che il grande desiderio d’eternità dell’uomo vince in una compresenza, sullo sfondo, di memorie e presenze, di mancanze e assenze.
Particolare rilevanza è data dal Sodi al Giardino, luogo abitativo e meta, tempo delle percezioni e delle sensazioni che offrono all’uomo un porto sicuro, al riparo dall’oblio: è esattamente dove l’anima può sentirsi libera di essere ubiquitaria, nel nome della saggezza e della sensibilità. “È luce che mi nomina/ e fa lieve il viaggio/ fra terra e cielo, verso il Giardino/ dove la mia diletta per me intreccia/ collane di narcisi” (“Ed ecco una voce”): il Giardino stesso diventa ricongiungimento, lo spazio-tempo dell’uomo che torna all’Amore, in questo preciso caso, alla sua Laura che eternizza con il ricordo e con il potere universale della poesia.
La liricità del Sodi sfiora delicatamente i significati delle percezioni e gli spazi delle emozioni che l’uomo incontra nello scandire dei giorni e delle stagioni, insegnandogli a cogliere l’essenzialità dell’incontro di natura ed eternità, fisicamente quando è “L’ora del tramonto”, momento di perdita irrimediabile e nostalgia, ma anche di attesa di rinascita, con la luce e per la luce.