Martedì  29 gennaio 2019 alle ore 17.00, in occasione della giornata della memoria presso la Casa di Dante in via Santa Margherita 1 R  a Firenze si è svolta la presentazione del libro DANUSIA  di DANA SZEFLAN BELL, Ladolfi editore,  2018.
Ha coordinato Giuseppe Baldassarre, sono intervenuti Michele Brancale, Annalisa Macchia, Francesco Todaro. E’ stato  proiettato un video messaggio dell’autrice.

“I ragazzi ascoltavano partecipi. Rivivevo la mia infanzia con mio nipote lì, seduto tra quei bei bambini: vedevo nei loro volti una generazione che non avrebbe più avuto testimoni di ciò che accadde a me, o di sofferenze come la mia.”          

Dopo il saluto di Franco Margari, vicepresidente della Società delle Belle Arti – Circolo degli Artisti  – ‘Casa di Dante’,  Giuseppe Baldassarre ha introdotto l’argomento dell’evento facendo riferimento alla Giornata della Memoria, istituita dal Parlamento italiano nel 2000, e alla necessità di continuare a riflettere su una pagina tragica della storia recente quale è stata la Shoah. Presentare questo libro e discuterne ce ne dà l’occasione.
Annalisa Macchia ha presentato il libro soffermandosi in modo particolare sulla ‘memoria’ dei protagonisti della Shoah, spesso inibita dalla sofferenza che provocavano i ricordi. Ha letto alcuni punti in cui la protagonista dubita di riuscire a ricordare e poi trova la forza per farlo, anche perché la speranza che questo sia utile ai bambini di oggi.
E’ seguito un breve videomessaggio dell’autrice agli alunni della scuola della pace, un doposcuola organizzato alle Piagge dalla Comunità di Sant’Egidio.
Poi Francesco Todaro ha illustrato il percorso che lo ha portato a scoprire questo libro in inglese e a farne, con la consulenza dell’autrice, un volumetto in italiano.
Infine Michele Brancale, di Città Metropolitana, ha sottolineato i valori che vengono comunicati da questo libro.
Il pubblico ha ascoltato pienamente coinvolto. Ci sono stati alcuni interventi e discussione.

 

Presentiamo l’intervento di Annalisa Macchia

Cosa succede quando il ricordo è talmente duro e orribile da non poter essere nemmeno verbalizzato? Quando non è possibile dargli un senso, una collocazione nel divenire del nostro passato?

Resta sempre freudianamente accreditata la tesi che i ricordi di avvenimenti traumatici possano essere rimossi dalla coscienza per un istinto di autoconservazione. Sorvolando sulle numerose teorie psichiatriche  a riguardo, mi limito a riferirmi ad un concetto messo in evidenza, per le conoscenze acquisite in epoca successiva, anche nel libro della nostra autrice: quello di Disturbo Post Traumatico da Stress: un fattore traumatico estremo che implica un’esperienza personale molto forte: una paura intensa, il sentirsi inerme o il provare orrore per qualcosa. I sintomi caratteristici che risultano dall’ esposizione ad un trauma estremo includono il continuo rivivere l’evento traumatico.

Per chi ha vissuto queste esperienze traumatiche, dunque, ricordarle è come riviverle. Gli eventi traumatici del passato sono richiamati con tale vividezza e intensità emotiva che sembra quasi che il trauma si stia riverificando.  Nei campi di concentramento, tra le tante cose distrutte e sterminate, c’era anche la memoria stessa: moltissime persone lamentavano vuoti di memoria, in molti casi un’inconscia rimozione. Anche in seguito, quando l’esperienza è ormai conclusa e superata, rimettere insieme i pezzi di ciò che è successo e raccontarlo con coerenza narrativa pare addirittura impossibile, ma l’incapacità o la supposta incapacità di raccontare, non significa avere dimenticato. Esattamente quello che capita all’ ormai adulta Danusia, che tra le mani stringe le poche foto di famiglia, cucite dalla mamma nei risvolti di un cappotto e miracolosamente superstiti, quando viene invitata a raccontarsi in un’intervista.

Mi sono soffermata su questa premessa per mettere in risalto l’atto di coraggio dell’autrice, disposta a mettere di nuovo a fuoco l’enormità di quel dolore passato. Perché lo fa? Solamente “nella speranza che possa aiutare le future generazioni a capire cosa è accaduto a delle persone degne di rispetto per mano di un regime di pazzi sotto il dominio del terrore”.  Spero vivamente che, almeno, questa operazione sia stata per lei di aiuto terapeutico, permettendole di recuperare anche tanti momenti positivi di quella bella famiglia che non esiste più, se non nei ricordi di lei sopravvissuta. A lei a e chiunque compie un gesto simile deve arrivare il nostro consapevole grazie, unito alla volontà di raccogliere la sua testimonianza come un dono prezioso.

Inutile dire che, al pari degli intervistatori, anch’io mi sono commossa nella rivisitazione di questo inferno in terra, che appare ancora più terribile dopo la descrizione del periodo felice e spensierato vissuto dai suoi cari, prima dell’avvento di Hitler. Gli eventi storici non possono essere compresi da una bambina così piccola, ma i suoi occhi, la sua pelle, tutto il suo essere provato fino allo stremo delle forze, ne registrano progressivamente gli effetti con incredibile lucidità, restituendoci  interamente lo scenario di impensabile follia che ha imperversato in quegli anni.

Tuttavia è necessario ricordare, porre davanti agli occhi di chi spesso non ha mai conosciuto disagi e per questo fatica a crederci, di quali abissi di male può essere capace l’uomo. Ricordiamoci il bel libro di Hannah Arendt, la “filosofa del male”, autrice de La banalità del male (1963): un resoconto sul processo all’ufficiale nazista Adolf  Eichmann che aveva coordinato  l’organizzazione dei trasferimenti degli ebrei nei vari campi di concentramento e di sterminio. Quando, nel 1960, fu catturato in Argentina, dove si era rifugiato, e fu finalmente condannato, in sua difesa ebbe a dire che, in fondo, si era occupato “soltanto di trasporti”. Tuttavia ciò che la Arendt scorgeva in quest’uomo dall’aspetto così comune, non era tanto la stupidità o la mostruosità, ma l’incapacità di pensare. Per lui, che con cieca obbedienza aveva sempre agito all’interno di ristretti limiti permessi dalle leggi e dagli ordini, non si poneva il problema del giusto e dello sbagliato. E di uomini come lui ce ne erano tanti, uomini comuni, “normali”, capaci di dare il via, senza rendersene conto, ad azioni di atrocità inaudita.  Sulla “banalità” del male, sulla facilità con cui il male si appropria dell’uomo si potrebbe, purtroppo, discutere a lungo.

Questo è un libro che sfida la “banalità” del male. Il racconto dell’autrice, nel rivelare la sua storia, si fa scudo del pensiero e il pensiero cerca di raggiungere la profondità. Danusia  si chiede drammaticamente  il perché di questo male, scava cercandone le radici, ma, frustrata, non trova risposte. Non le trova perché – dice la Arendt – il male non ha radici, solo il bene ha profondità e può essere integrale. Auguriamocelo.

 

L’intervento di Michele Brancale

In ‘Danusia’ è come se la bambina col cappotto rosso di Spielberg (‘Schindler’s List’) fosse sopravvissuta e potessimo ascoltarne la voce. E questa voce racconta una vicenda particolare: gli esiti di una fuga ad Est di una famiglia ebrea polacca a nome della quale è la piccola Danusia Szeflan Bell (Varsavia, 1938) a parlare. Danusia, che adesso ha ottant’anni, racconta di sé in un nucleo familiare che è sopravvissuto nella sua integrità: padre, madre, due figlie ma che è piccola parte di una parentela larghissima che è stata invece distrutta.

La memoria di quanto accaduto agli Ebrei in Europe è un antidoto alle pulsioni autoritare e la propagandismo che veicola veleni, complice quella forma di solitudine pubblica che è la fretta, permeabile solo a messaggi superficiali. In Germania la xenofobia si manifestà all’inizio come disprezzo verso goli ebrei che scappavano dall’Est per sfuggire a pogrom e vessazioni.

La memoria è un problema, sotto un altro profilo, per molti degli Ebrei stessi. Sara Cividalli, che è stata presidente della Comunità Ebraica di Firenze, ha parlato di “un mandato del silenzio”, quello che si erano dati i sopravvissuti tornati dai lager, per ricominciare e sollevare le spalle di figli troppo piccoli, da preservare dall’orrore anche se si fosse presentato nella forma del ricordo. Questo “mandato del silenzio” è stato osservato anche dalla madre di Sara. Lei e gli altri confidavano nel tempo, mentre cercavano di arginare nel silenzio la profondità delle ferite che, per tanti, erano state letali e per non pochi anche dopo il ritorno dai campi di concentramento.

I bambini di allora, come Danusia, hanno ricominciato a parlare, a raccontare, quando sono diventati anziani, mentre i loro genitori, per proteggersi e proteggerli, avevano preferito non rievocare.

Si deve gratitudine a Francesco Todaro che ha incontrato Dana nell’ambito dei rapporti familiari e ha cominciato a interloquire con lei che, dal dopoguerra, vive negli Stati Uniti. Traducendo il suo diario, ha interloquito con lei lasciando emergere pagine che ha aiutato a levigare; pagine scritte da un’anziana in cui parla la voce di una bambina sopravvissuta, che ha combattuto tra “reticenza” e memoria (“avevo immagazzinato un passato troppo doloroso da ricordare. Era un passato che volevo dimenticare”) e non ha voluto che l’eredità del silenzio, lasciata dagli adulti ai bambini sopravvissuti con loro, durasse per sempre. Danusia, come ogni bambina e bambino, aveva bisogno di sentirsi tutt’uno con i propri cari (una famiglia che si regge su vero affetto è un organismo vivente) e di dare voce alla fantasia, pur in un contesto estremo di fuga, cercando “giardini segreti” di cui parla nel diario ma dovendo assistere tanto alla “normalità del male” quanto alle possibilità misteriose e tenaci del bene.