A Firenze nel Palazzo del Pegaso, Auditorium Spadolini, in via Cavour 4, il 5 giugno 2018 alle ore 17.30 si è svolta la presentazione dell’Iris Azzurra di Franco Manescalchi. In sala è stata allestita una mostra delle sue opere pittoriche, a cura di Michael Musone.

Ha portato i saluti della Regione il Presidente del Consiglio Regionale Toscano, Eugenio Giani.

Ha coordinato le fasi dello svolgimento Giuseppe Baldassarre, direttore di Pianeta Poesia.

Riguardo alla figura di Franco Manescalchi come poeta e pittore sono intervenute l’artista Lilly Brogi e la poetessa e critico letterario Anna Vincitorio.

Del volume L’Iris Azzurra hanno parlato in modo approfondito Annalisa Macchia, condirettrice di Pianeta Poesia, e Luigi Fontanella, poeta e critico letterario, direttore della rivista ‘Gradiva’.

Lettura dei testi è stata fatta in modo suggestivo da Luciano Fusi, scrittore e attore. Un testo tratto da Pianeta Donna è stato letto dal poeta Daniele Ambrosini.

Laura Manescalchi ha eseguito musiche con il flauto, a cui si è accompagnata, a conclusione della serata, la voce recitante di Chiara Guarducci.

Silvia Ranzi e Giancarlo Bianchi hanno fatto omaggio a Franco Manescalchi di un statuina raffigurante il Pegaso alato e della copia della rivista ‘Pegaso’ in cui è recensita L’Iris Azzurra; Annalisa Macchia, da parte di Pianeta Poesia, ha regalato all’autore una spilla raffigurante una iris azzurra, realizzata da un orafo fiorentino.

 

 

                                                                                                    

 

                                                                                        

 

 

                                                                                                                                         

 

Si riporta qui di seguito l’intervento di Annalisa Macchia

 Il “pane quotidiano” di Franco Manescalchi                                

« A Annalisa dedico questi versi nati dal pane quotidiano ». Una dedica da vero poeta, penso sorridendo. In verità è limitante definire questo Autore, legato a doppio filo alla sua Firenze, solo “poeta”. L’inesauribile e variegata attività critica e culturale per la diffusione della poesia, la creazione di numerosi laboratori poetici e riviste letterarie e l’etica profonda che ha sempre caratterizzato ogni suo lavoro delineano una personalità colta e complessa, felicemente versatile e profondamente umana. Di conseguenza inevitabilmente amato dalla sua città, non meno di quanto egli la ami, poiché in questa terra, più che altrove, la lingua italiana, a lui tanto cara, si è andata letterariamente formando. A ulteriore conferma di questo ricambiato affetto, la Biblioteca Marucelliana di Firenze ha recentemente accolto il Fondo Franco Manescalchi, che raccoglie il copioso e prezioso frutto di tanti anni di lavoro dell’Autore.

Franco Manescalchi si profila attento testimone e interprete della cultura non solo cittadina, ma di tutto questo nostro tempo, a cavallo tra il Novecento e i primi anni del nuovo millennio, spesso così letterariamente confuso e contraddittorio. Mai confusi o contraddittori sono invece i suoi versi, sempre fedeli alla sua idea di poesia, che unisce la tradizione letteraria all’attualità, mai disgiunta da riflessioni politiche e civili. Mite e riservato nel privato quanto incisivo e perfino rivoluzionario nella scrittura per certe sue scelte controcorrente, seppure manifestate con estrema dolcezza di forma, ha dedicato tutta la vita all’arte, ad una letteratura che spesso sconfina allegramente nella musica (canti e tradizioni popolari soprattutto) e nella pittura. Delicati acquerelli, ritratti e disegni di ogni genere, come si può notare anche tra le pagine di questo volume, arricchiscono e completano le sue opere.

L’Iris azzurra, quell’iris florentina che « È dagli Etruschi che muta colore. / E forse questo riguarda noi pure / esattamente come avviene al fiore: // nella luce degli anni creature / iridescenti, per virtù d’amore, / finché lo stelo e la corolla dura.», in cui sono confluite numerose opere inedite e disegni accantonati nel tempo, coglie con autenticità la sua visione interiore ripercorsa nella luce degli anni. I versi di questa raccolta delicatamente intimistica si concentrano sul “pane quotidiano” ripescato tra i tanti ricordi di una vita vissuta come un dono.                                                                     .

Il libro, suddiviso in sezioni in cui riaffiorano le varie stagioni della sua vita, parte dall’adolescenza del poeta, dove, sullo sfondo, campeggiano le figure di Bruna e Guido, genitori e struggenti simboli di passaggio tra due epoche. La maturità è invece accompagnata dalla nuova famiglia, con le sue tre Muse ispiratrici: la moglie Mary e le figlie Chiara e Laura. I ricordi legati alle figlie piccole si traducono sulle pagine a loro dedicate in raffinate filastrocche e ninnananne in cui – non inganni l’apparente semplicità del linguaggio – egli teneramente dispiega una rara abilità poetica.                                Se i momenti in cui l’animo del poeta maggiormente si svela sono quelli familiari, non mancano rievocazioni che, nell’arco del tempo trascorso, hanno ugualmente segnato quel prezioso vissuto: Dissolvenze in uno specchio di rame, un omaggio alla Kore, alla fanciulla greca, simbolo di gioventù che entra con purezza nella vita; Sull’aia e nei campi, gustosi flashes di vita popolare campagnola tra animali e paesaggi di un’epoca ormai sparita; Amors de terra londhana, poemetto in versi sciolti dedicato alle Muse, ispirato al trovatore provenzale Jaufré Rudel, simbolo di un amore che non vuole possedere ma godere del suo stato di non possesso (chimerico approdo come la sua Melisenda), ma anche ad altri più moderni autori come Campana e Kafka; L’ora del passo, un susseguirsi di sestine raffiguranti amici, “sprazzi” di luce verso la vita, in visita durante una triste degenza in ospedale. Degne di nota anche tutte le poesie in cui sono rappresentati i luoghi più amati dall’autore: il Mugello, il Casentino, la Maremma.

Particolarmente significativi nel delineare il suo rapporto con la tradizione poetica, di cui spesso egli utilizza il modello, risultano i gozzaniani versi di Alla Kore, lungo poemetto sulla sua adolescenza composto da diciotto parti suddivise in sei sestine di endecasillabi. La personalissima voce di Manescalchi si fonde in un dialogo con gli autori più amati dell’antico passato, ma anche di quello più recente, rifuggendo ogni tono aulico e sempre dando ampio spazio al vissuto, alla sua quotidianità. Ne risulta una vera dichiarazione di poetica, una voce completamente nuova. «Ne esce fuori un’esperienza letteraria fra le più ricche e significative dell’ultimo quarantennio, all’interno di un ben difeso àmbito della propria autonomia da ogni forma di condizionamento.» (Giuseppe Panella – Gradiva, number 20/21, Fall 2001/Spring 2002).

Ecco, tratte da questo poemetto, tre sestine indicative: « ‘Signorina Felicita’. Ricordo / a diciott’anni leggevo Gozzano, / disegnavo su carta color corda / un profilo dolcissimo, una mano / affusolata. Scrivevo sul bordo / del foglio di un amore leopardiano. […] Il mio Tesoro di poeti antichi / e moderni a una luce disadorna: / quattro mele in un cesto, cinque fichi / sull’albero, una luna con le corna. / Avevo l’aria come di chi torna / in Arcadia, fra dame, paggi e plichi […] Non sarà vero e non sarà bugia, / la memoria è il diamante più prezioso, / i suoi riflessi mutano per via / in una luce nuova e misteriosa. / Ma non rispondi più, questa è la mia / voce: una voce calda che non osa.»                              I testi de L’iris azzurra, caratterizzati da musicale e virtuosa fluidità di scrittura in questo continuo gioco con la tradizione poetica, rivivificano le nostre desuete ma sempre gloriose forme chiuse, innestandole con naturalezza e originalità in un contesto di modernità e ininterrotto dialogo con la Poesia, nella convinzione che la Poesia odierna può vivere e crescere solamente se mantiene salde le sue radici. Si coglie in questo dialogo un certo spirito caproniano «in grazia di un fondamento di dimora vitale, prima radice della poesia» (Oreste Macrì), talvolta turoldiano per l’evidente sensibilità al rapporto poesia-religione; si avverte in tutta raccolta l’ombra luminosa di alcuni suoi «modelli di riferimento» come Saba, Ungaretti, Montale, Quasimodo, Luzi, Palazzeschi, Sinisgalli, Scotellaro e la memoria delle più recenti, fondanti amicizie con Oreste Macrì, Gino Gerola e Giuseppe Zagarrio.

Questo linguaggio pieno di pathos conduce il lettore in uno spazio di condivisione al contempo sereno e pensoso, leggero e profondo, ironico e malinconico, colloquiale e colto per gli innumerevoli richiami letterari, mai esibiti. La poesia di Franco Manescalchi si avvicina in punta di piedi al Mistero e, grata, si affida ad Esso, consapevole che i versi più autentici e universali si nutrono del “pane quotidiano”.