Annalisa Macchia, Robot, Aracne, Canterano 2017

” Non era la prima volta che Robot usciva di notte. Solamente durante le ora notturne, quand’era un ragazzino, aveva potuto esplorare il mondo esterno, conoscere piante e animali, sentire le carezze e le sferzate del vento sul viso e tra i capelli, percepirne i diversi profumi, incantarsi alla luce bianca della luna. ”

 

 

Un commento di Mariagrazia Carraroli

UNA BELLISSIMA RISATA

Prima di aprire il libro, già l’immagine di copertina fa intuire che si sta per entrare dentro un paesaggio notturno dove dominano ombre attonite forse impaurite per qualcosa di inaspettato.

E’ proprio così.

Le pagine e lo scritto, fin dall’incipit, confermano l’impressione iniziale, descrivendo un mondo desolato, dove anni di guerre devastanti hanno desertificato il suolo e l’animo dei pochi sopravvissuti.

Subito la sensazione che provocano gli scatti iniziali del racconto è piuttosto angosciante, se non fosse per gli inserti ironici che qua e là sollevano il lettore dal clima alquanto teso e sconfortato del contesto: un ragazzino pieno di pustole ed eczema la cui fragilissima pelle non può sostenere la luce del sole e che per tale motivo porta una tuta-scafandro, tanto da farlo assomigliare ad un robot. E ROBOT diventa il suo nome.

Genitori, familiari ed amici falciati dal terribile virus della GRANDE PAZZIA e lui, solo, che per unica compagnia ha la robotica tuttofare EFFECI’ e un simpaticissimo bastardino MISTER  O, nonché i miliardi di stelle che il nostro non si stanca di contare ed ammirare dall’alto del suo domestico, attrezzato osservatorio .

Via via che ci s’inoltra nel racconto, stilato con efficace suspense dall’autrice, si assiste agli incontri notturni del ragazzo, spesso improvvisi e carichi di pericoli, data l’esistenza di uomini imbarbariti dalla fame e disposti a tutto per avere qualcosa da mettere nello stomaco, sia questo vegetale oppure animale selvatico o domestico …

Di qui l’avventurosa ricerca di MISTER  O fuggito di casa, e l’incontro con la dolce, generosa Bet (nome accorciato da un altro piuttosto lungo e inconsueto ) che nella sua antica dimora ha creato una particolarissima Arca di Noè.

Fra i due ragazzi nasce un’affettuosa intesa che li porta insieme a scoprire un mondo sotterraneo inimmaginabile e ad incontrare un geniale, solitario scienziato che nel ventre della terra svolge esperimenti avanzatissimi per salvare flora e fauna ormai in via di estinzione sul desertico Pianeta.

I colpi di scena si susseguono e rendono sempre più avvincente il racconto, in cui il sospetto, la desolazione e la paura dell’inizio cedono alla fine il campo ad una costruttiva speranza e alla complicità dei protagonisti in una gara di solidarietà ed aiuto verso i più soli e sfortunati.

Il finale è un sorriso, anzi, una bellissima risata che si espande dal sottosuolo al cielo per affermare senza profferir parola che la Vita vince sul buio e l’Amore sull’arso d’ogni deserto.

Un bel libro per ragazzi che fa bene a tutte le età e che conferma Annalisa Macchia scrittrice poliedrica, capace di sorridere con bimbi e filastrocche, analizzare e indagare con i saggi e la critica, ed emozionarsi con la poesia.

 

LA REGRESSIONE DELLA CIVILTÀ

di  Plinio Perilli

Ad Annalisa Macchia e al suo Robot

dolcissimo residuo d’umanità, bimbo
cresciuto orfano di affetti in un mondo
da day after a cavallo fra il sogno e l’incubo
col suo Pegaso alato teso a trasvolare entrambi…

 

Una favola forte, questa volta, una metafora per adolescenti, certo, ma anche una rutilante parabola per adulti, dove il rischio stesso del Futuro – la modernità qui infausta e irrefrenabile, finita in Grande Pazzia – aleggia e deflagra in scenari di quotidiana e usuale apocalisse:

“… Poca gente, poco cibo, poca acqua e nessun sorriso circolavano ora tra le vie delle rare città fantasma, dove, lentamente e faticosamente, si cercava di affrontare il nuovo corso dell’esistenza. Vita grama anche per gli animali, soprattutto quelli da compagnia, poco abituati a lottare per una razione di cibo, più facilmente destinati a diventare cibo essi stessi. L’alta tecnologia degli anni precedenti era ormai un lusso accessibile a pochi fortunati e in molte zone la regressione della civiltà raggiunta fu inevitabile.”…

Robot – personaggio presto indimenticabile – anima tutto il racconto, il ritmato, gustoso quanto ansioso romanzo breve, con le sue tante, malinconiche esitazioni e le sue fiere, poche certezze: dolcissimo residuo d’umanità, bimbo cresciuto orfano di affetti in un mondo da day after a cavallo fra il sogno e l’incubo, col suo Pegaso alato teso a trasvolare entrambi… meditando, registrando e compensando, insieme, il drammatico fallimento del Futuro, e la regressione della civiltà raggiunta…

Annalisa Macchia è molto brava a prendere quest’atmosfera da denso, affumicato e fumigante film catastrofico, da dramma perenne del futuro in atto (ricordate la truculenza epocale di The Road, l’apocalisse già accaduta, e ancor più inconscia, prossima ventura di questo film che s’addentra nell’incubo?…), e donarci invece una preziosa, agile storia a tesi, diciamo un calviniano conte philosophique, che piange e sorride insieme, in una scenario post-atomico che ancora si anima, latita e poi rigemma di ritrovamenti, percezioni nascoste, salvataggi concreti e ideali, bagliori che si spengono e s’accendono come la nostra speranza di… migliorare il pianeta (o meglio, a questo punto, semplicemente salvarlo, strapparlo al gelo o alla siccità, come si fa con un giardino, di volta in volta angustiato dalla neve o dalla sabbia di un totale dissipamento d’armonia: tutto ciò che secca l’anima e i tronchi, i rami, la linfa insanguinata d’ogni irripetibile – ammoniva Dante – “aiuola che ci fa tanto feroci”…).

Lasciamo stare tutta l’annosa, intrigante tradizione dei romanzi cosiddetti d’anticipazione, o d’una salace, rapinosa ed echeggiante Science-Fiction sempre desta a calarsi in queste dimensioni di travaglio terrestre e spaziale nello stesso modo, col Tempo che dissennato si fa artritico, e bestemmia o zoppica con esiti drammatici, che di secolo in secolo retrocedono e superano, inghiottono i decenni con lo stesso piglio, la stessa suspense spesso assai fascinosa, di chi sperava che il Futuro fosse solo un paradiso da riconquistare – e non invece una nuova, definitiva Terra Desolata che nemmeno il buon Eliot saprebbe più poetare… tra ombre fuggiasche e creature o destini “abbandonati”…

“… Una ragazzina ansante, grazie al corpo sottile, scivola tra le due sbarre allargate del cancello e, con il cuore in gola, corre a nascondersi tra i fitti cespugli. Mani furiose tempestano la grossa inferriata senza riuscire ad aprirla, finché, sospinte da altri capricci, due persone si allontanano urlando …”

Certo, tutta la storia del rapporto tra letteratura e utopia è affollata di testi insieme profetici e apocalittici, sfondi in perenne movimento per autocoscienze dell’Umano davvero intriganti, frastornate tra il bilancio fenomenologico del contingente e la romanzeria astratta, o meglio surreale, dell’Epokè sempre terremotato, tra mille scosse d’assestamento o dirompenti, sussultorie e ondulatorie assieme… Pensiamo, solo negli ultimi decenni, a mordenti, espressioniste opere italiane per l’appunto in tema, da Dissipatio H.G. di Guido Morselli (1977) a Il pianeta irritabile di Paolo Volponi (1978), a La foresta finale di Enzo Fileno Carabba (1997)…
Ma qui c’è qualcosa di diverso – una funzione educativa, staremmo per dire: un fermo ruolo pedagogico – che rende tutto più utile, e insieme divagante, a tratti fantasiosamente dolce, come il pregio affabulato di una parabola.

Annalisa Macchia sa che oramai la generazione dei fanciulli digitali nati ha azzerato, riformattato tutto, ha rastrellato, depredato, forse, tutte le usuali e placide oasi della fantasia – gli ozi benestanti che sorseggiano coca-cola light e aranciate dolci mentre tutti i colori s’irradiano, si visualizzano interconnessi in un mare di noia ed estri consueti, impigriti fino a 5, 10, 50 Giga… di finti Anni Luce! Forse per questo ci sorprende, ci ammannisce quest’allarmato orizzonte di pena, questo pianeta combusto e poroso come un monotono, sublime quadro di Burri, o una dipinta, ossessiva, ingigantita cifra di Hartung… Ma lei lo salva a cupa, rintanata e strepitosa quinta teatrale, ardita Cupola Argentata su una collina che certo ignora Spoon River; e riformatta o difende allo stremo una scenografia dell’anima dilapidata di sorrisi e colori, gioie fisiche e fervori terrestri, atrocemente orfana della Natura che dovevamo invece signoreggiare, custodire proprio per comando divino: e della Bellezza che sapevamo adorare, intonare in cuore, e ora invece rinunciamo a onorare, inseguire come gli antichi, eternamente giovani Poeti Romantici, poetavano inni e odi al Vento Occidentale…

Tra macerie sepolte di vita o brulicanti di poche esistenze e destini salvatisi, in spazi strappati al nulla che diventano immense stanze metafisiche per poche improbabili Muse Inquietanti o magari un laboratorio sotterraneo dove un accanito e vegliardo scienziato cerca, tenta ancora di salvare il mondo – i pochi frammenti che lì ne restano, in vite e speranze, residuali entrambe – ma anche fortissime.

“… Bet non ricordava quando aveva ceduto al sonno, ma ricordava benissimo la lunga conversazione, poi proseguita, con quella strana figura. Altro che ‘segno’. Un ‘sogno’, ecco cos’era. Un banalissimo sogno. Eppure, mai avuto prima un sogno così realistico, se di realismo si può parlare, si disse ancora perplessa, quando si ha a che fare con uomini-ombra.”

Non staremo ora a svelare la trama, l’ordito di un testo (e una parabola) come Robot – le vicende di lui e Bet, dello scienziato pazzo e geniale, o di un cane zampettante e fedele come Mister O. E dell’altra ragazzina, giovanissima e magrissima, apparsaci anch’essa come una fresca, provvidenziale parvenza d’Anima… Né ci dilungheremo sui voli bassi ma fieri, anch’essi “eroici” del povero Pegaso, metallico destriero alato: “uno strano oggetto sospeso in aria, una specie di metallico cavallo senza zampe”… E che però si batte, trasporta ragazzi baldanzosi come Robot o fanciulli feriti, impauriti… Ma nell’attesa sempre dei nuovi eventi, continuando, di giorno e soprattutto di notte, a cercare come Robot il suo cielo:

“… Le amiche stelle, con il loro baluginare, sembrava volessero salutarlo, indicargli con grazia la residua bellezza del mondo in cui viveva. Un mondo? Praticamente un niente, tra infiniti altri. Lo sapeva bene, eccome se lo sapeva. Quello che non capiva era perché gli sembrava tanto più difficile orientarsi qui, in questo bizzarro niente, tra qualche albero e poche rovine, che lassù, nello sconfinato, inesplorabile universo.”…

La magia di un libro come questo è di ritrovare i colori dentro un mare magnum di grigio e di malessere – nemmeno troppo profetico, dato il nostro maldestro tempo di crisi (nonché Age of Anxiety come ben poetò Auden)… E di salvare il sorriso – che è quello medesimo della scrittura d’ogni favola, cioè avventura dell’anima, per vaccinarla contro i rischi e travagli di troppa Realtà, troppo spesso dissipata e crudele.
Solo nelle favole il lieto fine è sempre d’obbligo, e tutti o quasi ritrovano il sorriso… “Robot stava guardandosi le mani. Rosse indubbiamente, e chissà se per poco o per sempre, ma finalmente capaci di tollerare il sole. Silenziosamente le mostrò a Bet.”…